Resina di un certo livello...

giovedì 29 dicembre 2011

Questioni di linguaggio

L'aspetto conta, a volte moltissimo. Di certo il giusto aspetto permette la migliore diffusione di un'opera, o concetto, ma quando questo finisce per primeggiare addirittura sul messaggio stesso, è quello il momento in cui bisognerebbe fare un passo indietro. Se è necessario rinunciare alla propria identità, alla propria caratteristica distintiva e al proprio stile in nome della diffusione, si produrrebbe a mio avviso l'effetto contrario: saremmo inondati (più di come avviene effettivamente) di tanti cloni i quali si moltiplicherebbero con fare mitotico in nome della perfezione o dell'evoluzione. Allora si che oltre alla noia troveremmo impossibile trovare il messaggio di fondo, quello che da principio doveva essere soltanto veicolato dall'aspetto, dal linguaggio e così via...
Un esempio pratico? Nel cinema troviamo tanti generi, tanti modi di rappresentare l'immagine e tanti contenuti sui quali riflettere, eppure per alcune rappresentazioni difficilmente riusciamo ad attribuire un valore (a primo impatto) rispetto a come faremmo con altre. Potreste pensare ad un film per bambini, oggi, in bianco e nero, muto e con soli attori in carne ed ossa? Probabilmente no. Potrebbe mai esserci una produzione contemporanea di questo tipo? Certo che si: la sua riuscita dipenderebbe dalla bravura dei responsabili, ma potrebbe essere. Potreste mai pensare ad un film sulla guerra, sulla sofferenza e sullo spaesamento che essa genera, vedendo un cartone animato dai colori "pastellosi"? Probabilmente no, ma se vedeste "Una tomba per le lucciole" forse sarebbe tutto più chiaro. 



Il film di Takahata è la testimonianza di come un linguaggio, un aspetto o una rappresentazione, non possano essere prese ad etichette perché ogni convenzione può essere stravolta e riformulata. I veri geni sanno fare questo: stravolgere le convenzioni e stravolgere le tue convinzioni. Takahata e Miyazaki dello studio Ghibli sanno confezionare con stile unico e inaspettato messaggi e concetti meravigliosi, a volte anche complessi. Il "castello errante di Howl" si presenta come una favola ma intanto ti tocca le convinzioni sociali, ti scombussola la logica e ti lascia affascinato. Questi sono solo esempi, perché poi di queste cose ce ne sono a bizzeffe, bisognerebbe solo scoprirle, ma per scoprirle è necessario lasciare da parte le convinzioni sul linguaggio e l'apparenza. Bisognerebbe capire il contenuto predisponendosi a capirlo, invece di lasciarsi condizionare unicamente da come questo si presenta.

domenica 25 dicembre 2011

Pyramid Post

Pyramid, come una piramide di pietra, con valore culturale, sociale, storico e religioso. Pyramid come cellule della forma conica per via delle suo proiezioni. Pyramid come una perfetta successione di collisioni di molecole d'aria, una perfetta successione di note musicali. Pyramid.






sabato 24 dicembre 2011

A me, me piace! [cit. nucleo accumbens]

Quello che adoro delle neuroscienze è la capacità di dare spessore alla realtà. Non che questa non ne abbia, ma ce l'ha solo in un verso, mentre se vedi le cose dal punto di vista neuroscientifico lo spessore acquista nuova dimensione. E così penso a quanto mi piace questa cosa, e mentre penso a quanto mi piaccia questa cosa posso pensare a "come" mi piaccia. Si, perché il piacere stesso, inteso come senso di gratificazione o anche come piacevole sensazione che si prova in determinati momenti, prende origine da un punto preciso (o da una via che porta in un punto preciso) e da una sostanza precisa. E questo non dà forse nuovo spessore? Un rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, ecco uno dei meccanismi (forse il principale) che porta alla sensazione di piacere, di gratificazione, di benessere...


Ma non si tratta di riduzionismo il mio...Non si tratta di credere che sia solo un ammasso gelatinoso di reti neurali: si tratta di averne cognizione e si tratta di sapere che dietro una struttura ce n'è un'altra. E questo fatto, proprio questo fatto, fa si che sia possibile che dietro quest'altra struttura...ce ne sia un'altra ancora. Sapere che abbiamo un motore sotto il cofano ci rende più umani di qualsiasi altra ipotesi costruita sulla magia, di qualunque altra speranza un po' strampalata. 
Neuroscienza...a me, me piaci!

lunedì 12 dicembre 2011

Il senso del neuroscienziato

Se provi a cercare Joseph Le Deux su Twitter non ti esce nulla. Per vie traverse però ci puoi arrivare, si perché lo trovi come Theamygdaloid, ovvero il nome della sua band. E questo è il senso di essere un neuroscienziato: ovvero non essere necessariamente chiuso nei confini di un laboratorio (indispensabile) perché anche al di là di quei confini si trovano le risposte che cerchi. Questa è una lezione che ho imparato tanto tempo fa. Ho imparato che prima di essere un intellettuale, prima di sentirtici, devi mandare a fanculo ogni tipo di intellettualismo. Altrimenti sei un coglione. E Amen. Le Deux (per chi non lo conoscesse è un famoso neuroscienziato, studioso degli aspetti emozionali del cervello e scrittore dei libri "Il cervello emotivo" e "Il Sé sinaptico") ha evidentemente mandato a fare in culo ogni forma di intellettualismo postmoderno (questa parola non c'entra nulla ma suonava dannatamente bene) e si è messo a suonare con altri scienziati.
Gli amygdaloid...

lunedì 5 dicembre 2011

Quello che ho imparato

A leggere.
A scrivere.
A non leggere merda.
A scrivere merda (con piccole, rare, eccezioni).
Ad ascoltare e non rispondere necessariamente subito. Ma, prima o poi, comunque rispondere.
Ad essere paziente e ad aspettarsi qualcosa, perché se non mi aspetto nulla, nulla ricevo.
Ad ascoltare musica.
Ad ascoltare buona musica.
A guardare le persone negli occhi.
A dar valenza ai sentimenti, miei e altrui.
A togliere l'orologio perché "cazzo, ne sto diventando schiavo...non faccio altro che guardare l'ora!".
A togliere ogni tanto le cuffie dalle orecchie mentre sono sui mezzi, per ascoltare i discorsi dei signori e dei giovani che mi stanno accanto.
Ad alzare il volume delle cuffie, per non ascoltare a volte le scempiaggini della gente sui mezzi, giovani o non che siano.
A non usare le frasi fatte perché non rappresentano mai per intero un pensiero, perché snaturano la complessità che ci caratterizza e perché ci rende un "vuoto qualunque".
A sopportare chi non può fare a meno di utilizzare frasi fatte.
A sopportare in generale.
A non accontentarmi per le persone che mi circondano, a non voler amicizie "tanto per"...
A scrivere ogni tanto un piccolo post su Rossoresina, nonostante il poco tempo e la poca voglia...perché fa bene...e lo consiglia anche il medico!

venerdì 25 novembre 2011

Effetto fifty-fifty

Al di là del fatto che da ragazzino consideravo l'espressione "facciamo fifty-fifty " l'equivalente del "facciamo fiky fiky" (imbarazzante misunderstanding) oggi, ben conscio del suo significato, mi trovo sempre un po' a disagio difronte a situazioni a doppia uscita. Sarà un po' l'effetto della psicologia del "vaso cinese di Dostoevskij", non so, ma quando ho l'opportunità di affrontare le situazione al 50% delle probabilità...inesorabilmente fallisco. Le cose son due: o esiste un meccanismo quantistico che fa si che le probabilità del 50% di riuscita in un qualsiasi compito sia più difficile di quelle al 10, o al 20%, oppure c'è che quando mi sento in bilico, senza spinta a favore o contro,  inevitabilmente fallisco. Quando una prova è facile, e lo sai, sei sicuro di riuscire, perché la difficoltà intrinseca della prova stessa ti porta alla riuscita; quando sai che invece hai poche probabilità di riuscita allora diventa qualcosa di personale, tu contro di lui e così sfidi infondo anche te stesso, il tuo limite alla prova e, se non dovessi riuscire, sei quasi quasi giustificato. Ma quando non ti viene, implicitamente, detto né l'una né l'altra cosa, allora rimani solo tu...è lì che fallisco.

giovedì 3 novembre 2011

L'ordine del piano inclinato

Da sempre ricordo una certa attenzione all'ordine. Non da parte mia, sia chiaro, ma da chi mi circonda. Non so perché, forse sarà sfortuna, ma molte delle persone che hanno attraversato la mia vita, seppur di passaggio, avevano un qualche rapporto amoroso con l'ordine. Ho visto imbustare i propri abiti, con cura, uno ad uno, senza soffrire la ripetitività delle azioni necessarie per vestirsi; ho visto vivere nel disordine salvo poi dettarsi regole, autoregolanti, che portavano a sistemare solo alcuni oggetti in mezzo al caos. Ho visto il finto disordine nel quale i mucchi di cose  erano ben gestiti e, soprattutto, ai quali non potevi mettere mano, altrimenti avresti fatto...disordine. Sono arrivato persino all'alcol passato sulle superfici e alla maniacalità del centimetro. Ma al di là di tutto questo, al di là di ogni forma d'ordine sana o insana che fosse, mi son sempre trovato a gestire il mio disordine come qualcosa di perennemente sbagliato, come un sistema buggato che seppur sistemato tende poi sempre in un'unica direzione. Almeno fino a quando qualcuno non vi avesse rimesso mano per sistemarlo, inconsapevole della riuscita momentanea del suo intervento. Ecco il mio disordine è sempre stato l'effetto d'inerzia che si ha su di un piano inclinato, un effetto di disturbo alle quali le persone cercano di opporsi. 
Sarà stata sfortuna, non so, o sarà che il mio disordine è il riflesso d'un ordine tutto mio, mentale, fatto sta che io non ho mai voluto interferire con l'ordine altrui, è l'ordine altrui che interferisce con il mio piano inclinato.

domenica 30 ottobre 2011

Post metapostico

Quello del blog è un ambiente strano, nuovo sicuramente, ma tra le caratteristiche principali userei l'espressione "eterogeneo". Si perché non solo non c'è un decalogo preciso su come e, soprattutto, cosa bisogna scrivere, ma l'esistenza intrinseca dei blog porta ad un'alta varietà del materiale scritto. Allora ti ritrovi blog diaristici, dove manca davvero solo l'espressione "caro diario" e poi siamo a cavallo, che con tutte le confidenze del cuore (e anche di altre parti del corpo) se ci passi per caso e leggi qualche riga ti sembra d'essere finito in un pigiama party; oppure puoi finire in uno di quei blog che vanno tanto per il momento (e che se devo essere sincero mi piacciono anche) dove l'ironia e, soprattutto, la satira e il sarcasmo nero la fanno da padrone, dove insomma si incarna l'anima moderna e quotidiana priva di limiti sociali e colma di ottima maleducazione; oppure ancora si può finire in uno di quei blog tecnici, monotematici e "d'argomento", i quali ti arricchiscono solo se ti interessi di ciò di cui trattano. 
Qui da queste parti le cose sono un po' differenti. Ho cercato di non adottare nessuno di questi modelli, nessuno stile in particolare anzi, ma attenermi solo e soltanto ad una cosa: la mia capoccia! Eh si, forse sarà questo il problema di questo blog, non so. Quindi l'unico filo logico che è possibile trovarci è sempre e solo uno: Rossoresina.

sabato 29 ottobre 2011

The Fades - Riconsiderazione seriali

Non ho mai gradito troppo le semplificazioni e le inutilità in genere. Per questo, nell'intrattenimento, l'horror non ha mai avuto un appeal particolare su di me; vuoi perché difficilmente riesce nell'intento al quale è indirizzato ("horrorizzare"), vuoi perché i contenuti sono scialbi (ho detto scialbi? Intendevo inesistenti). E, diamine, si i contenuti per me sono praticamente tutto. Il significato d'una poesia, il messaggio di un racconto, il valore d'una storia: è il contenuto dell'opera che riformula e "sconquassa" il pensiero e il modo di pensare e, quindi, ti lascia crescere, ti arricchisce. Tuttavia, mi sto rendendo conto che qui si tratta solo di un aspetto del contenuto, di quello più intellettivo, di quello più razionalizzante. Quando vedi un film con il chiaro messaggio sociale, morale o storico quello che recepisci è un messaggio intellettualizzato, posto ad un livello cognitivamente chiaro, facile da assimilare. Non voglio dire che questo tipo di messaggi sia facile da capire (anzi, delle volte raggiungono elevatissimi livelli filosofici), ma che una volta compresi siano di facile assimilazione cognitiva, perché "parlano" il nostro stesso linguaggio... Il difficile arriva quando ci si trova davanti ad un messaggio doppiamente celato, un contenuto con un linguaggio più lontano dal nostro modo di pensare, magari fatto d'immagini e impressioni. 

Se dovessi spiegare perché la serie tv britannica "The Fades" debba essere vista mi troverei seriamente in difficoltà, ed effettivamente mi ci trovo...Diciamo che i motivi più lampanti non rappresentano quelli reali. Tuttavia: breve serie improntata sull'al di là (solo che di qua) con misteri tendenti all'horror, condita di battute incalzanti (ma che non sminuiscono mai l'ambientazione e la trama) e un'atmosfera britannica davvero...british! Detto questo...resta tutto il resto. E tutto il resto tratta di un'atmosfera, di immagini, di suoni, e di una fotografia che ti fa capire come ogni aspetto (in questo caso le tv series) possa avere una sua alternativa e che questa sua versione alternativa non debba essere necessariamente migliore o peggiore, ma semplicemente godibile. Sempre a tutti gli effetti.
V'ho detto di che parla, ma per capire davvero di cosa si tratta, bisogna seguirla. 

mercoledì 26 ottobre 2011

Me, vecchio - Foglie e gocce d'autunno

Quando a 17-18 anni ti fanno leggere libri di autori del calibro di Woolf e Joyce, le pagine ti scivolano addosso neppure fossero acqua e olio, il significato, ancor più neppure ti prende, se non la sua mera superficie didattica. Ed è tutto lì, si resta tutto lì. L'istituzione d'un significato in quanto necessario, non costituirà mai nel ricevente il vero beneficio per il quale dovrebbe essere posto. L'obbligo a ricevere un valore inibirà necessariamente il ricevente. Eppure gli anni passano, e ti ritrovi su un tram, vecchio stile, tra palazzi, vecchio stile, e guardando fuori t'accorgi che il cielo plumbeo "grazie al cielo" assomiglia sempre a se stesso, fa sempre il suo lavoro e ti porta, bene o male, sempre le stesse stagioni. Ti ritrovi anni dopo con ancora qualche goccia d'autunno tra le pieghe dei pantaloni, qualche schizzo di fango sulle scarpe, la barba un po' più lunga (del solito) e la sensazione che da vecchio tutto questo te lo ricorderai; non come si ricordano i dettagli ma come si ricorda il senso di un libro scordandosi poi dei fatti narrati. Mi ricorderò di questa mia giovinezza quando mi siederò su un tram vecchio stile e guardando fuori le foglie e le gocce d'autunno venir giù senza troppa importanza.

lunedì 3 ottobre 2011

Gli anni '90

Volevo scrivere qualcosa al riguardo...Ho provato. Troppe cose. Forse questo è uno dei modi migliori. Se a qualcuno ne vengono in mente altri faccia pure...

mercoledì 28 settembre 2011

Il paradosso del posto in treno

La mia vita "pendolaresca" mi impone delle riflessioni. Delle volte tali riflessioni riguardano la vita, altre la morte e altre ancora la natura stessa e implicita...del pendolare. Non si tratta di un individuo come gli altri, no, sul pendolare grava il peso del mondo. Non intendo il peso in quanto responsabilità, intendo il peso nel senso di pesantezza, sofferenza... Il pendolare è l'unica categoria umana che non svilupperà mai e poi mai il senso di fratellanza con gli appartenenti alla medesima categoria, semplicemente perché è in aperta competizione proprio con essi. La meta non è l'arrivo del viaggio, non è la stazione ultima del treno, ma casomai il posto. Il guscio che permette il godimento delle innumerevoli sfaccettature della realtà, che siano esse il sonno o la lettura, non è altro che un vecchio sedile, su di un vecchio treno. 
Tipica vita da cani di un pendolare

Ma il problema che si pone alla radice della questione è quello medesimo della nostra stessa società, ovvero che non ci sono posti a sedere per tutti. Ma passiamo al paradosso. Se su una tratta di medio-lunga durata (facciamo, che so, una cinquantina di Km) il numero dei pendolari si distribuisce equamente, ma con le prime fermate tutti i posti a sedere si esauriscono, chi avrà diritto a sedersi in una diatriba, quando tutti i pendolari saranno saliti? La riformulo più chiaramente. Se arrivati alla quinta fermata su dieci tutti i posti sono occupati, nel momento in cui gli ultimi pendolari saliti chiedono di sedersi agli stessi loro "colleghi" seduti dalla fermata di partenza, chi avrebbe diritto a godere del posto? I pendolari seduti dalla prima fermata avranno dalla loro come motivazione prima di tutto il fatto di possedere già il posto, secondo poi di essersi svegliati prima e di aver dunque preso decisamente prima il treno; i pendolari seduti dalla quinta fermata, tuttavia, potrebbero ribattere che loro (i pendolari senior) sono stati seduti per un numero di fermate equivalente a quello che resta per raggiungere il capolinea, e quindi la seconda metà del viaggio (da seduti) spetterebbe a questi altri (i pendolari junior). Ma le cose si potrebbero complicare ulteriormente qualora i senior ribattessero a loro volta che alzandosi si farebbero 5 fermate seduti e 5 in piedi mentre i junior se ne farebbero solo 5 da seduti; ma allo stesso modo i junior potrebbero rispondere che non cedendo il posto i senior si farebbero 10 fermate da seduti mentre loro, i junior, se ne farebbero 5 in piedi. Ancor più complessa diverrebbe la diatriba qualora i senior esprimessero il loro diritto al posto sostenendo come argomentazione che la loro città di partenza è più lontana, quindi il loro risveglio la mattina più precoce e così via...Tuttavia, i junior potrebbero smorzare l'argomentazione avvalendosi di un principio di "non colpa", lavandosi della responsabilità della loro città natale/di appartenenza. Si potrebbe andare avanti per molto, alla ricerca di dettagli in grado di risolvere la questione. Ma volete sapere la soluzione? Semplice, non credo ci sia...Beh che volete, io l'avevo scritto nel titolo che era un paradosso...

lunedì 26 settembre 2011

Speriamo che gli scanner vedano meglio di me...

A scanner darkly. Si tratta di un libro di Dick, e di un film. Quando lo vidi la prima volta non c'ho capito nulla, lo ammetto. Ero rimasto affascinato dalla bellezza delle sue scene (il film usa una speciale tecnica che colorando a mano sulla pellicola crea un effetto di mix tra ripresa reale e animazione)




eppure vedere il film mi ha lasciato un gran senso di confusione, come se il film pur avendo un inizio ed una fine, non riuscisse a farmi arrivare nessuno dei due, lasciandomi con la sola sensazione del momento, del presente. Sono passati alcuni anni ed essendomi capitata sotto mano una copia del libro, ed avendolo iniziato, ho deciso di dargli un'altra possibilità. Cosa ne penso? Penso che: VAFFANCULO, è molto bello. E ho capito anche perché mi sembrava non avesse un inizio ed una fine degne, logiche: perché l'esperienza stessa che racconta non ne ha. Intendiamoci, pur complessa che sia la trama, la conclusione la mostra, ma il senso che dà non è quello del termine, del viaggio dal punto A al punto B, ma l'esatto contrario. Nel film regna la più totale confusione cognitiva, con oggetti che prendono vita, allucinazione di grado psicotico e dialoghi sconclusionati e paranoidi. Ma va al di là di tutto questo: infonde nello spettatore lo stesso sospetto di essere fuori di testa, di non aver capito bene cosa stia succedendo al momento, come se si fosse appunto strafatti. Ti mette in testa l'idea che tu ci sia arrivato troppo tardi o magari per niente. Con me ci sono riusciti, la prima volta che ho visto il film...chissà che questa volta invece io non mi sia immaginato il tutto...

P.S. Ah la colonna sonora comprende "black swan" di Tom Yorke, dettaglio non esattamente irrilevante.

mercoledì 21 settembre 2011

Hanno vinto loro!


Sia ben chiaro: questo non è un blog di politica, o di politicanti, ma la parola in sé "politica" con la sua radice fa intendere una questione generale delle tematiche della città/nazione/società/mondo, quindi è inevitabile andarsi a scontrare con alcune questioni.

Detto questo, ripeto quello che è ben visibile nel titolo: hanno vinto loro. Non intendo una vittoria politica, di voto, bensì una vittoria culturale e questo è facilmente notabile dalla reazione suscitata dalle frasi del viceministro Castelli. Silenzio. Qualche mugugno, ma poi silenzio. Intendiamoci, me ne frego (letteralmente) del colore della sua bandiera, o di quella dei suoi compagni, o di quella dei suoi avversari, perché non è questo che identifica una persona. Una persona si identifica per le parole che fa uscire dalla bocca e dalle azioni che fa. Nel video qui sopra visionabile il viceministro sostiene di essere marxisticamente povero, in quanto per ragioni ideologiche ha rinunciato ad una ben più proficua pensione da ingegnere, per uno stipendio di 145.000 euro l'anno. Più o meno 12.000 euro al mese. Mi vergognerei, personalmente, ad adoperare la parola povertà associandola ad una cifra del genere. Anche marxisticamente parlando. Ma non è questo il discorso, non lo è davvero. No perché, oggigiorno abbiamo imparato troppo bene a divertirci alla "pubblica gogna virtuale" con personaggi quotidiani e mondani, che s'attiva sulle frasi e sulle espressioni. Un gioco che poi, in quanto virtuale, non porta da nessuna parte, si esaurisce con l'esaurirsi delle batterie, e la cui utilità riguarda più che altro quella di riempire le pagine di facebook, o dei blog (ops). Oggi (e chissà magari anche ieri) siamo abituati a sputare su praticamente qualsiasi cosa: io posso sputare sulla frase di Castelli, ma figurati se non trovo qualcuno che sputi sulla mia frase su Castelli, e figurati un po' se non si viene a trovare qualcuno che ha da ridire proprio sulla frase contro la mia frase che era contro la frase di Castelli. Va bene, va bene il mondo è bello perché è vario, ma qui l'abitudine riguarda più che altro la ciarlataneria. E intanto loro hanno vinto. Chi? Quelli che gettano il sassolino nello stagno e si godono gli stipendi, i privilegi, i titoli nobiliari, la notorietà, le puttane, le case, le cose, le auto, mentre il sistema chiacchiera e chiacchiera e chiacchiera e chiacchiera. Hanno vinto quelli che sono immuni dalla reazione, perché la reazione (di qualunque tipo, che si tratti di una reazione fisica o mentale) viene a mancare, si estingue. Improvvisamente l'unica reazione che riusciamo ad avere è quella internettiana. 

venerdì 16 settembre 2011

Guaranteed - Eddie Vedder


On bended knee is no way to be free
Lifting up an empty cup, I ask silently
All my destinations will accept the one that's me
So I can breathe...

Circles they grow and they swallow people whole
Half their lives they say goodnight to wives they'll never know
A mind full of questions, and a teacher in my soul
And so it goes...

Don't come closer or I'll have to go
Holding me like gravity are places that pull
If ever there was someone to keep me at home
It would be you...

Everyone I come across, in cages they bought
They think of me and my wandering, but I'm never what they thought
I've got my indignation, but I'm pure in all my thoughts
I'm alive...

Wind in my hair, I feel part of everywhere
Underneath my being is a road that disappeared
Late at night I hear the trees, they're singing with the dead
Overhead...

Leave it to me as I find a way to be
Consider me a satellite, forever orbiting
I knew all the rules, but the rules did not know me
Guaranteed

domenica 4 settembre 2011

Shock the evolution

Probabilmente Darwin aveva ragione, oramai (checché ne dicano alcuni) sembra abbastanza assodato. Per la cronaca l'evoluzione non funziona come un miglioramento, una sorta di upgrade, come molti pensano e come ci verrebbe anche spontaneo pensare. L'evoluzione funziona come una sorta di sopravvivenza a random: te sei quello di sempre, io nasco con le ali, in questo ambiente ostile io sopravvivo meglio di te e, per giunta, trovo tra migliaia di altri individui come te uno con la mia stessa caratteristica, ci accoppiamo e i nostri pargoli funzioneranno e sopravviveranno meglio dei tuoi pargoli. Moltiplichiamo per milioni di anni, e si hanno i periodi evolutivi. Insomma si, aveva ragione, ma cosa succede se in questa formula introduciamo ad un certo punto un elemento forse imprevisto, un elemento in grado di assolvere ai "compiti" evolutivi quali la sopravvivenza individuale, ma che si riveli a lungo andare destabilizzante, imprevedibile ; cosa accadrebbe alla formula dell'evoluzione se introducessimo la coscienza?  Ogni organismo, dalle cicadine alle zanzare hanno un funzionamento che rientra perfettamente nei canoni della sopravvivenza e dell'evoluzione, ma solo un organismo presenta le caratteristiche proprie della coscienza e per quanto ci piaccia vedere barlumi di coscienza in animali intelligenti (e anche simili a noi) quali scimmie, cani e delfini, a conti fatti possiamo essere certi al 100% della presenza di coscienza solo in un animale: l'uomo.  Perché ritengo la coscienza un elemento a lungo andare destabilizzante? Semplice: la coscienza, qualora fosse "nata" come nuova caratteristica evolutiva, sarebbe servita senza dubbio a fortificare tutti i caratteri propri della sopravvivenza; per questo basti pensare all'unione tra individui. Se per due cani, l'accoppiamento funziona a periodo, feromoni e lotte intestine nei gruppi, nell'uomo evoluto funziona per "amore", per idealizzazione (e quindi fortificazione) dei sentimenti. La/il nostra/o amata/o non ci appare come il fine della procreazione, ma come la ragione d'essere, di vivere. Non voglio fare del semplice cinismo anche perché, in quanto essere umano, c'entro anche io in questo discorso, ma la coscienza fortifica gli istinti, donandogli delle razionalizzazioni. Ma per l'appunto, al di là di questo, la coscienza, in quanto autoconsapevolezza dell'individuo intelligente, produce alta varietà di comportamento. Ed è questo, a mio avviso, il bivio dell'evoluzione stessa: se da una parte c'è con il resto della sfera animale/vegetale (e c'era con i nostri antenati) il comportamento stereotipato, sicuro e prevedibile, c'è con noi ora una varietà di comportamento che prende si spunto dai nostri istinti e necessità, ma che sfocia poi nell'imprevedibilà. Ma proprio questo punto focale resta quello maggiormente critico in tutto il ragionamento: se un elemento sviluppatosi in un organismo, lo rende meno incline all'autoconservazione, cosa succederebbe se un giorno nascessero individui privi di quello stesso elemento? Cosa succederebbe se un giorno nascessero uomini dove (di nuovo) la coscienza è assente, o che comunque ricopre un ruolo minore? 

domenica 28 agosto 2011

La psicologia del granito

Le frasi più belle ci vengono dette nei momenti più inaspettati; quando sei lì, con la palpebra mezza calata disinteressato ecco che ti viene spiegato qualcosa che ti sei sempre chiesto e che ti torna in mente come un martello sul chiodo dei pensieri. Alcuni anni fa durante una lezione, all'università, sulla psicofisiologia del sonno tra schizzi noradrenergici e serotoninergici il professore se ne uscì con qualcosa di inatteso: disse che la nostra tendenza a vedere delle immagini significative nei tipici puntini delle mattonelle, sarebbe in realtà la tendenza del nostro cervello (se volete "mente" ma il sunto non cambia) a dare significato alle cose, la tendenza alla comprensione. 

Quando guardiamo una lastra di granito, in un primo momento i puntini ci appaiono per quello che sono, ovvero la causale distribuzione di diverse colorazione, ma poco dopo saltano alla vista piccoli raggruppamenti che ricordano forme geometriche, oggetti, e addirittura volti. Un po' come  accade quando osserviamo le nuvole; non sono davvero a forma di coniglio, eppure... Ad ogni modo questa frase mi torna in mente ciclicamente, più per la sua profondità umana che per la sua valenza scientifica. Mi sembra che oltre al granito questa caratteristica sia estendibile anche agli eventi e alle persone; mi sembra che la nostra necessità di dare significato alle cose, delle volte davvero senza significato alcuno, faccia parte della nostra stessa natura. Come se non potessimo fare a meno di riempire di noi stessi il mondo che ci circonda. Difronte a questo enorme granito dobbiamo pur cogliere qualche significato...

martedì 16 agosto 2011

Tom Waits - Come on up to the house




Well, the moon is broken and the sky is cracked
Come on up to the house
The only things that you can see is all that you lack
Come on up to the house

All your crying don't do no good
Come on up to the house
Come down off the cross, we can use the wood
You gotta come on up to the house

Come on up to the house
Come on up to the house
The world is not my home
I'm just a-passing through
You got to come on up to the house

There's no light in the tunnel, no irons in the fire
Come on up to the house
And you're singing lead soprano in a junkman's choir
You got to come on up to the house

Does life seem nasty, brutish and short
Come on up to the house
The seas are stormy and you can't find no port
Got to come on up to the house, yeah

You gotta come on up to the house
Come on up to the house
The world is not my home I'm just a-passing through
You got to come on up to the house, yeah

You gotta come on up to the house
Come on up to the house
The world is not my home
I'm just a-passing through
You got to come on up to the house

There's nothing in the world that you can do
You gotta come on up to the house
And you been whipped by the forces that are inside you
Gotta come on up to the house

Well, you're high on top of your mountain of woe
Gotta come on up to the house
Well, you know you should surrender, but you can't let it go
You gotta come on up to the house, yeah

Gotta come on up to the house
Gotta come on up to the house
The world is not my home I'm just a-passing through
You gotta come on up to the house

Gotta come on up to the house
You gotta come on up to the house
Yeah yeah yeah

mercoledì 10 agosto 2011

L'estensione dello spazio

Ricordo distintamente che qualche anno fa desideravo la grande città, desideravo il flusso continuo di persone e l'avvicendarsi delle loro facce. Credevo che in questo modo avrei incontrato le loro menti, tante menti. Ricordo distintamente come ritenessi che la grandezza d'un luogo rivelasse le sue possibilità, racchiudesse implicita tutte le coincidenze della vita. Ero certo che la scelta del mio nido sarebbe stata quella della grandezza, sarebbe stata la metropoli. Sono passati anni da quei pensieri, sono passati studi, litigi, brindisi al vino rosso, sigari ardenti e solitari; sono passate le stagioni all'ombra della riflessione ed ora non mi riconosco più in quel pensiero ma, inaspettatamente, nel suo opposto. Dico inaspettatamente perché nella mia testa ho combattuto tutta la vita per l'idea che tutto dovesse essere più grande (big is better!), meglio di quanto non fosse (e non importa come fosse), una sorta di spietato progressismo senza meta, un progressismo la cui meta è l'orizzonte. Ma sono arrivato ora ad un punto in cui quello spietato progressismo non c'entra più nella mia testa, non riesce più ad entrare... E' come se mi fossi accorto che la meta che tanto cercavo pur non vedendola mai fosse divenuta ora il mio stesso punto di partenza, come in un percorso in linea retta su di una superficie sferica. Mi sono accorto d'improvviso che non esiste meta, e non per la distanza epica alla quale la poniamo, ma semplicemente perché non esiste. Avevo esteso lo spazio ideale nel quale vivere: non bastavano mille, diecimila, ventimila case, non bastavano un milione o due milioni di abitanti, volevo il meglio di qualsiasi meglio. Ora, però, quest'estensione inizia a ritrarsi. Il mio spazio inizia a tornare un punto.

lunedì 1 agosto 2011

L'inutilità della puntualità

Mi piace pensare difronte ad un appuntamento che la puntualità non sia poi una condizione di intrinseca necessità. L'altra notte ho acceso la tv (ottimo modo per tentare di dormire, che poi ogni tanto ti regala anche qualche cosa di interessante) e c'era una sorta di documentario sullo stile di vita "surfistico". C'era questo tizio che diceva senza fronzoli che non importa quello che stesse facendo, con chi stesse parlando e quale appuntamento dovesse rispettare, se vedeva la giusta onda da cavalcare lasciava tutto, e andava. Semplicemente, andava. Va bene, il surf è figo, ma andatelo a dire quello che attende all'appuntamento. Ma al di là del poveretto che aspetta (e aspetta...) è il senso della puntualità che sfugge da questo quadro. Se ragionassimo come robot, come calcolatori o come menti del tutto logiche probabilmente ad ogni appuntamento arriveremmo puntuali, per ogni incontro ci programmeremmo in modo tale da fare la puntualità la nostra regola. Generale, come ogni nostra funzione fisiologica che diviene poi, nell'arco della nostra vita, una vera è propria funzione mentale imprescindibile, come il mangiare, il sesso e via discorrendo... Invece no. Distribuiamo i nostri appuntamenti tra i ritardi che diventano sempre più accidentali, quasi mai intenzionali. Qualcuno ne è succube tanto quanto colui che aspetta all'appuntamento, qualcun'altro invece lo vive a cuor leggero, non accorgendosene neppure. Qualcuno ne fa addirittura una questione inconscia, alcuni ne fanno una "discussione" col proprio ego. Altri invece incolpano la propria attenzione, che si appiccica su tante e tante cose, che è difficile guardare in tempo l'orologio. In tutto questo marasma, figuriamoci quale utilità possa avere essere puntuali, arrivare al momento giusto di lancette regolate in maniera impropria, su principi imprecisi che non tengono conto della soggettività del tempo... La puntualità serve solo per i calendari.
Parola di un tipo puntuale.

sabato 30 luglio 2011

Il pescatore - Fabrizio De Andrè



All'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

Venne alla spiaggia un assassino
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un'avventura.

E chiese al vecchio dammi il pane
ho poco tempo e troppa fame
e chiese al vecchio dammi il vino
ho sete e sono un assassino.

Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ho sete e ho fame.

E fu il calore di un momento
poi via di nuovo verso il vento
davanti agli occhi ancora il sole
dietro alle spalle un pescatore.

Dietro alle spalle un pescatore
e la memoria è già dolore
è già il rimpianto di un aprile
giocato all'ombra di un cortile.

Vennero in sella due gendarmi
vennero in sella con le armi
chiesero al vecchio se lì vicino
fosse passato un assassino.

Ma all'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito il pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

mercoledì 20 luglio 2011

LiberaResina - Un anno di...

...tempo. Un anno dove il tempo s'è dilatato, cambiato. Un anno di cambiamento, in molti casi forzato, dove la discussione la fa da padrona, con gli altri si, ma soprattutto con se stessi. E allora cambia tutto. In un anno ho fatto tante cose anche se un economo direbbe che non ho fatto un bel niente; ho camminato tantissimo, attraverso alberi verdi, spogli, e poi ancora verdi; ho camminato tra i palazzi delle città, infilandomi nei vicoli e uscendone come si esce dai camini, pieni di fuliggine, pieni dell'aria densa della vita quotidiana. Ho visto, o meglio osservato, tutti quei particolari che ho sempre snobbato, sempre ignorato, e ho ne ho scoperta l'importanza. In un anno ho cancellato il ruolo che mi piaceva attribuirmi e facendolo ho capito che era solo e soltanto un ruolo, che il lavoro non rende quello che siamo, ma solo un'infinitesima parte di noi stessi. Ho capito che ho altro, oltre ciò che perdo, che il tempo macina minuti, ore, mesi, e ti restituisce un anno fatto di attesa e ricostruzioni interiori. Ho capito che devo accettarlo, ho capito che fa parte del gioco. In un anno, ho respirato arie diverse, sporche, pulite, puzzolenti, profumate, straniere e nostrane. In un anno il gioco è continuato e continua tutt'ora. 


Un anno di
narcisi e solitudine
specchiandomi
nella mia finitudine,

sporgendomi
su quella viva fissità
che ad ogni respiro moriva un po'
in concentriche

delucidazioni
e fuggevoli illuminazioni.

E in essa tu,
ninfea di bianco fascino,
che aprendoti
sul lago delle vanità

ti apristi a me, perduto in
una sola immagine
vibrante ad ogni sospiro.
E bella e fragile.

Ci guardammo e ci ascoltammo:
silenzi e parole a corredo fecondo del testo della seduzione
e il suono segreto delle brame a musicare la scena.
Poi finalmente un dì ti presi fra le mani
e le tue foglie si adagiarono sui miei palmi
ma il soffio della vita e il suo schiaffo ti fecero presto volare via

Ed ora, qui,
nessun profumo sa di te.
Non ci sei più.
Nell'acqua ciò che è intorno a me
si specchia con me
riflesso in un'immagine
che si anima di quello che anima me.

Resterò qui
un anno, un altro... e quanti più...
specchiandomi
ovunque dove eri tu.
E intorno a me
narcisi e quietudine
e tutto ciò che si anima di quello che anima me.

lunedì 18 luglio 2011

Alternative n.4

Resto ancora un po' dalle parti dello spazio, dalle parti della scienza spinta verso la fantasia, insomma faccio ancora un giro con gli alieni. "Alieno" deriva da "Alius" ovvero "altro". E' un termine dunque che esprime una forte soggettività perché il concetto di altro può essere compreso solo dall'osservatore (o comunicatore e ascoltatore...) e mai in senso generalizzato. Se dunque per noi gli alieni sono coloro che vengono da altri luoghi, per forza di cose noi saremmo alieni nel caso ci incontrassimo con abitanti di altri pianeti. Al di là di questo che, tutto sommato, è un concetto decisamente banale mi chiedevo alcuni giorni fa cosa succederebbe se, in un'ipotetica evoluzione dell'invio di messaggi relativi alla nostra cultura, arrivassimo infine ad inviare nello spazio profondo un intero filamento di DNA.


Mettiamo per assurdo che ci fossimo resi conto che inviare nello spazio dischi con incisi brani musicali potrebbe non sortire alcun effetto, in quanto i lontani ascoltatori potrebbero non comprendere cognitivamente il senso del brano, o addirittura non avere alcuna forma di capacità uditiva; oppure mettiamo che fossimo arrivati alla conclusione che l'invio nello spazio di un disegno dell'uomo e della donna possa scontrarsi con una  intrinseca mancanza di astrazione degli oggetti, e dunque della relativa comprensione dei disegni. A tutto questo potrebbe dunque seguire la decisione di mandare una parte di noi, la parte più rappresentativa a livello biologico e dunque, come detto, il DNA. 

Inviare il DNA quindi significherebbe accettare che l'altro, "l'alieno", possa essere talmente "altro" da non avere praticamente nessun punto di contatto con noi e il nostro funzionamento, e questo significherebbe quindi inviare un documento basilare del nostro essere, che non derivi da nessuna nostra componente cognitiva. Ma cosa succederebbe se i nostri lontani amici, riuscendo a comprendere fino in fondo la natura e le caratteristiche del DNA, decidessero di creare da esso un individuo terrestre? Da questa domanda mi viene in mente la cucina... Si perché quando viaggio e mi cimento nel tentativo di farmi un bel piatto di pasta (giusto per fare un esempio...) il risultato non raggiunge livelli fallimentari solo grazie alle mie sopraffine capacità culinarie. Si perché, nella cucina gli elementi fondamentali non sono solo le capacità del cuoco ma anche l'acqua adoperata, l'aria, il tasso d'umidità e così via... Allo stesso modo immagino che l'ambiente biochimico necessario per la creazione del terrestre sarebbe difficilmente del tutto identico a quello della terra. Ma poniamo che i nostri alieni riescano a trovare tutti, tutti, gli ingredienti giusti... il problema sarebbe un altro, e ben più complesso. Si perché un individuo nato e cresciuto sul pianeta XYZ non sarebbe affatto un vero essere umano. Data la natura plastica del nostro cervello, come del nostro funzionamento cognitivo, che ci permette di apprendere nuove lingue, nuovi comportamenti, nonché nuove arti e capacità, il nostro povero oriundo spaziale si ritroverebbe ricolmo delle funzioni intellettive (e soprattutto linguistiche) del popolo XYZ, anche se con limiti dettati dall'evoluzione umana. Diciamo che sarebbe una via di mezzo tra i nostri limiti e propensioni e le caratteristiche ambientali offerte da XYZ. Ma questo è solo uno dei modi in cui potrebbe finire la storia, perché prima ancora di immaginare uno dei nostri, con in testa il caos spaziale, dovremmo convincerci che la possibilità di trovare qualcuno che funzioni (al di là della cultura) nel nostro identico modo, è estremamente bassa. Ma forse la nostra è una convinzione romantica e un po' infantile, una sorta di speranza di trovare un nostro fratello gemello nello spazio, una sorta di anima gemella che non ci faccia più sentire così, tremendamente, soli.

sabato 9 luglio 2011

LiberaResina - Solo oggi

Mattine d'estate. Mattine bruciate dal sole, dal vento caldo che non risparmia nulla. E quello che fai è trascinarti, tra i sorrisi, tra le chiacchiere. Tra i numeri. E Luglio è qui, con i suoi numeri sempre pronti ad aumentare, mai diminuire. Giusto o sbagliato, bisogna chiederselo mentre si vive, mentre si parla o si guarda, mentre si ragiona o si lavora. Giusto o sbagliato. E i numeri aumentano, quasi fossero riti malevoli, quasi fossero preghiere d'un rosario. Luglio sembra quasi dicembre, ha il suo natale. Se dovessi scegliere un mese in cui morire (e dai anche io morirò, non ho svelato nessun finale a sorpresa) probabilmente sceglierei Luglio. Se dovessi scegliere un mese da vivere, vivere ciclicamente sempre lo stesso, non sceglierei Luglio, perché questo è un mese di passaggio, come quelle cose che usi poco, distrattamente, e alle quali tieni tanto quando poi diventi vecchio. Non vedevo l'ora arrivasse quando ero bambino, ma ora non lo sono più. Ora ci sono decine d'anni a frappormi dalla mia immagine infantile. E la mia versione ottantenne mi strizza l'occhio mentre tira fuori tutte le cose della sua vita che sempre ha messo in disparte, e a cui tiene di più.
Solo per oggi, tutto questo, concedetemelo.

sabato 2 luglio 2011

Universi olografici - Parte III - Il resto

Cosa rimane oltre le cose che già ho detto? Tutto il resto... Si perché le piastre olografiche e la teoria delle tracce mnestiche sono solo il punto di partenza per un discorso che potrebbe avere confini più ampi di quanto si immagini. E allora "tutto il resto" non significa certo che ogni singola cosa debba rientrare in una visione di questo tipo. bensì che ci sono altre cose alle quali fare riferimento. Quando chiedevo se la questione dei cerchi olografici ricorsivi e della registrazione neurale della memoria vi facesse venire in mente dell'altro mi riferivo a questo: 

o meglio non esattamente a questo, ma a quello che rappresenta. Quest'opera di Escher rappresenta la ricorsività nella natura. Sappiamo tutti che i pesci non sono formati da squame a forma di se stessi, eppure questo in un certo qual senso è effettivamente vero. Basti pensare al DNA, un copia non esplicitata di quello che siamo contenuta dentro ogni cellula. Come se noi fossimo ripetuti miliardi di volte in forma più semplice per poter essere gli individui unici e indivisibili che siamo, nella stessa maniera in cui l'ologramma è formato da molteplice immagini del medesimo e proprio come i nostri ricordi sembrano essere formati da circuiti neurali ripetuti molteplici volte in specifiche aree cerebrali per formare poi un'unica esperienza soggettiva. Ma tutta l'importanza della teoria olografica viene acquisita grazie alla teoria di David Bohm sull'Universo olografico. Secondo il fisico l'universo funzionerebbe proprio come un ologramma, con un ordine implicito,
a noi del tutto sconosciuto, ed uno esplicito il quale viene compreso dal nostro cervello in un modo molto simile a come farebbe con un ologramma, attraverso onde di interferenza. La sostanza è che quello di cui abbiamo esperienza sarebbe "solo" una rappresentazione, di qualcosa che in realtà non conosciamo affatto: anzi, anche noi faremmo parte di questa rappresentazione. In questo discorso ne rientrerebbe anche un altro, ancora più grande ovvero quello della limitatezza sensoriale e i presupposti derivati dal principio di indeterminazione di Heisenberg che prevedono che la scienza (e anche noi) possa conoscere solo entro i nostri limiti sensoriali.
Ad ogni modo, quella dell'universo olografico è solo una teoria, ma quello che davvero ritengo importante da tutta questa menata che vi ho fatto è che la ricorsività c'entra, sia nei nostri cervelli che nelle nostre menti come nell'universo. 
Auguri.

venerdì 1 luglio 2011

Universi olografici - Parte II - Cervello

Il cervello è un organo estremamente ardito nel suo funzionamento, lo si sa, e la comprensione di ogni sua funzione sembra essere un rebus. Nei primi anni del '900 il neurochirurgo W. Penfield fece una scoperta fantastica: la stimolazione, tramite elettrodo, sulla superficie cerebrale dei lobi temporali produce nel paziente (è possibile fare operazioni cerebrali con paziente sveglio perché l'encefalo non ha recettori del dolore) flash di ricordi vividissimi. Quindi: io stimolo un punto e tu ricordi! Perfetto! Penfield ha scoperto che la memoria si localizza in punti specifici. Invece no. Cosa succede infatti quando, per varie ragioni, si asportano ampie parti di cervello? Si perde parte dei ricordi risponderebbe il prode Penfield...e invece no. Con Lashley e Pribram siamo giunti alla conclusione che i ricordi non possono avere una locazione specifica, nonostante lo strabiliante esperimento dell'elettrodo condotto da Penfield. Estese ablazioni cerebrali possono addirittura non risultare in perdite amnesiche! Da qui Karl Pribram (nella foto qui sotto) ha sviluppato una teoria a dir poco strabiliante, 
No, non porta i regali il 25 Dicembre


quella del "Cervello Olografico". Prendendo spunto dal funzionamento dell'Ologramma, secondo il Dott. Pribram il Cervello non funzionerebbe immagazzinando l'informazione in specifici punti, come la logica suggerirebbe e come ha suggerito al Dott. Penfield, ma attraverso una distribuzione massiva dell'informazione, una distribuzione ricorsiva. Ricordate i cerchi sulla piastra olografica? Ebbene un ricordo potrebbe essere immagazzinato in questa maniera, per estese porzioni cerebrali, in sovrapposizione con altri schemi di immagazzinamento di altri ricordi. Il vantaggio evolutivo appare evidente: una lesione focale (concentrata in uno specifico punto) non risulterebbe in una perdita del ricordo, e quindi permetterebbe un vantaggio evoluto. E infatti vi ricordate cosa è successo quando in un atto di sadica gioia abbiamo rotto in due pezzi la piastra al povero proprietario? Esattamente quello che succederebbe al cervello del paziente del Dott. Penfield se asportassimo esattamente l'area che, una volta stimolata, ha prodotto il ricordo: nulla. La piastra ha continuato a riprodurre l'immagine proprio come il paziente continuerebbe ad avere il medesimo ricordo. Vi ripeto la domanda: tutta questa storia non vi ricorda dell'altro? 

giovedì 30 giugno 2011

Without you - Eddie Vedder


I’ll grow when you grow
Let me lose it up the blind fold
I’ll fly when you cry
Lift the side of this landslide

Wherever you go, whenever we part
I’ll keep on healing all the stars
That we’ve collected from the start
I rather this than live without you

For every wish I hold a star
That goes old and set in the dark
There is a dream I’ve dreamt about you
From afar I lie awake

I close my eyes to find I wouldn’t be the same
I’ll shine when you shine, painted pictures over my mind
Some sad song this ocean, never wanted some by devotion

However you are or fold that you fall
I’ll keep on healing all the scars
That we’ve collected from the start
I rather this than live without you

For every wish I’ll hold a star
(That goes old and set in the dark
There is a dream I’ve dreamt about you
From afar I lie awake
I close my eyes to find I’ll never be the same
Without you..without you. 

Universi olografici - Parte I - Ologrammi

Stavo per mettere il tutto in un Alternative, ma poi ho pensato che quella Olografica è una teoria vera e propria, sviluppata da diversi autori e che ha un polo realistico ed applicativo ed un altro del tutto teorico. 
Prima di tutto: Ologrammi? Si, esatto, ologrammi ma scordiamoci per il momento questo: 

non sto parlando di fantascienza (anche se ultimamente si sono ottenuti risultati simili a questo), sto parlando di piastre olografiche, ovvero piastre di un particolare tipo di materiale, le quali subiscono un processo di registrazione di immagini tramite laser. E' come se si trattasse di un'incisione fotografica fatta con tutte le diverse prospettive. 
Qui potete vedere zio Tibia in posa olografica


Il risultato è appunto quello di un'immagine (che per la riproduzione richiede l'esposizione diretta e dritta, di una fonte luminosa) la quale sarà visibile a seconda del nostro punto di vista. Immaginate di sporgervi verso destra nel tentativo di osservare la parte sinistra del teschio qui sopra: essendo un ologramma ne vedrete appunto il lato sinistro. Non ho intenzione di scrivere del processo necessario per la produzione di queste piastre olografiche in quanto, non solo non ne sono un esperto, ma non è neppure il mio intento quello di parlarne. Quello che posso dire però è che l'irradiazione proveniente dal laser produce l'incisione della stessa immagine tantissime volte, con una parziale sovrapposizione. Quello che si ottiene è più o meno questo:

Una serie infinita di "cerchi", una serie infinita di immagini tutte uguali che insieme ne formano un'unica. La domanda più divertente del mondo che si può fare ad un possessore di una piastra olografica è "Scusa, posso spezzarti in due la piastra?" e no, non si tratterebbe di sterile bullismo. Perché no? Perché la rottura della piastra farebbe si che ci fossero due piastre olografiche perfettamente funzionanti e riproducibili entrambe per intero l'immagine originale. Se poi al proprietario non è venuto un infarto nel vedere la sua preziosa (e credo anche nel senso economico del termine) piastra in pezzi potreste chiedergli di romperla ulteriormente perché tanto il prodotto sarà sempre lo stesso: ogni piastra  manterrà la sua capacità di riprodurre l'immagine. Come mai? Basta tenere a mente i cerchi: l'immagine originale è prodotta da un elevato numero di immagini tutte uguali, questo vuol dire che l'informazione incisa è ripetuta infinite volte e dunque archiviata in ogni dove, all'interno della piastra! Rompere la piastra non sortirà l'effetto di rompere un marchingegno per la riproduzione, semplicemente perché non esiste nessun marchingegno, come noi lo intendiamo. Nel caso degli ologrammi il processo usato è quello ricorsivo, ovvero la stessa informazione in piccolo ripetuta "n" volte, produce una uguale informazione più grande e quindi maggiormente funzionale e fruibile. Dico: vi ricorda qualcosa? Nelle parti seguenti magari capirete dove voglio andare a parare!

mercoledì 29 giugno 2011

La vostra magia si chiama "Place Cells"

Al fenomeno conosciuto come "Déjà Vu" sono state attribuite le più disparate e fantasiose spiegazioni che vanno dalla reincarnazione, la preveggenza fino ai viaggi spazio-temporali. Personalmente mi è sempre piaciuto pensare che le spiegazioni più affascinanti siano quelle che pur vicine a noi non riescano a trovare facile spiegazione. Lasciando da parte dunque preveggenze e viaggi dell'anima, oggi la teoria che più pare verosimile (verosimile, perché da qui a dire che il fenomeno del Dèjà Vu è del tutto compreso ce ne vuole...) è quella delle "place cells". Nel nostro caro cavalluccio marino cerebrale (vedi: Ippocampo) c'è un gruppo di neuroni (le place cells, appunto) le quali hanno la particolarità, tramite le loro caratteristiche di scarica, di "segnare" la posizione dell'individuo su di un campo topografico. Si potrebbe immaginare una sorta di mappa dell'ambiente esplorato al momento e le place cell in questione, attivarsi in base alla posizione che l'individuo ritiene di occupare in quel preciso istante. Va di conseguenza che questo sistema di localizzazione neuronale sia indiscutibilmente legato alla sensazione di familiarità, che il luogo (e la mappa neuronale) suscitano. Un errore, o un falso "matching" con un altro luogo produrrebbe un'erronea sensazione di familiarità, amplificata tra l'altro, dall'incongruenza cognitiva riscontrata dall'individuo. Al di là delle "place cells" poi c'è la teoria mnestica, ancor più semplicistica: in questo caso la sensazione di familiarità sarebbe suscitata da una traccia mnestica (un ricordo, ma anche meno) attivata da un particolare dell'ambiente o dalla situazione il quale tuttavia non è recuperabile attivamente dall'individuo. Per fare un esempio: vado a trovare un conoscente nella sua casa al mare dove non sono mai andato e, una volta lì, un quadro, un oggetto o quant'altro mi attiva inconsciamente una traccia mnestica relativa ad un oggetto della mia infanzia o del mio passate del quale tuttavia non conservo ricordo alcuno. Il risultato in questo caso sarebbe la sola sensazione di familiarità. Pensiamo poi a tutti gli altri canali sensoriali non necessariamente visivi; pensiamo alla potenza mnemonica dell'olfatto...
Insomma a volte la magia ha addirittura ancor meno valore magico delle spiegazioni plausibili. 

Comunque...

martedì 28 giugno 2011

Il nulla di o






Resta giù, superando ogni limite
 Lei soffre ma la pena può ridere 
Ci toccherà combattere la noia come ogni volta che rimani sola 
Non è più così, cosa cerchi non è lì 
e non serve esser sani se poi vivere è tragico 
 Cud cu cu
 C'è un errore tra di noi 
Cud cu cu 
Che stiamo immobili,
 restiamo immobili
 finchè verrà a salvarci

martedì 14 giugno 2011

Pregiudizi on the road

Una volta una persona mi ha detto :<< Si, ok, il pregiudizio sarà un vizio di forma mentale, sarà un errore, ma prima di dire che è completamente sbagliato forse bisognerebbe avvicinarsi il più possibile alla realtà che vive colui che formula il pregiudizio. Dirlo così, da esterno, è troppo facile.>>. E' vero, non c'è nulla da fare. Non avendo nulla a che fare con la situazione che ha scaturito il pregiudizio non si potrà comprendere nulla di esso, tanto meno la sua vicinanza con la realtà dei fatti... Potrei ora fare una caterva di esempi più o meno inflazionati partendo naturalmente dagli extracomunitari, passando poi per le categorie sociali e lavorative per finire in grande stile con le differenze sessuali. Insomma: c'è un mondo vivo e pulsante che aspetta infamie e turpiloqui. Ma ho deciso di non farlo. No, sarebbe troppo facile. Ho deciso invece di prendere come esempio, qualcosa di di più soft, qualcosa di quotidiano ma di non inflazionato, qualcosa che spesso è denigrato dalle persone ma che non infiamma le discussioni. La parola del giorno è: videogames.  Videogames...giochi a video. Già dal nome stesso partiamo male e mi trovo in salita. Il pregiudizio che spesso si lega ai videogames è appunto caratterizzato dal fatto che vengono considerati dalle persone in qualità di meri giocattoli visivi, qualcosa quindi destinato ad un pubblico di infanti e di infantili, qualcosa che non possa insomma offrire nulla al di là del solo intrattenimento. Il problema, come per quasi tutti i pregiudizi, è la base di realtà: i videogiochi nascono in questo modo e per questo scopo e la loro primissima e significativa evoluzione (tra gli anni 80 e i 90) è rientrata comunque in questa accezione. Questo porta ad oggi ad un immaginario collettivo legato a quel tipo di intrattenimento, aiutato poi da schifezze senza senso audiovisivo alcuno. Vedasi questo: 

Quello che sto cercando di dire è che è vero, da un certo punto di vista, che i videogiochi non sono altro che giocattolosi intrattenimenti i quali, una volta dismessi, non lasciano altro che le ore trascorse ad usarli. Ma vi sembra forse possibile che non vi sia un'alternativa? I film sono tutti demenziali o d'azione? Siete pronti a scommettere importanti parti del vostro corpo (senza citare quali) che tutti i cittadini di un determinato stato puzzino o siano criminali? O che tutti gli appartenenti di una determinata categoria di lavoratori sia effettivamente figli di una poco di buono? Ecco: allora non tutti i videogames saranno necessariamente una schifezza (vedi sopra). E allora, se un pregiudizievole si avvicinasse giusto con un pizzico di umiltà ad opere audiovisive come questa 

scoprirebbe la differenza tra un film e un videogioco e la ragione d'esiste di questi ultimi. Volete che ve la dico? Ok: i primi sono passivi, assorbi un'atmosfera e un messaggio, i secondi invece sono attivi, vivi quell'atmosfera decidendo tu come viverla e districandoti in un mondo interattivo. E' questa la vera ragione d'essere: l'interattività. Per la prima volta le opere che creiamo interagiscono con noi, richiedendoci determinate abilità e decisioni. Il nostro caro pregiudizievole dunque premendo "start" si troverà a dover risolvere problematiche legate sempre al ragionamento le quali possiedono anche un certo margine di adattabilità alle nostre azioni. Poi viene l'atmosfera, poi la storia e il mondo coerente sempre con se stesso. Se accendi la tv e trovi un film scadente non puoi ritenere che tutti i film lo siano (neppure se ne trovi dieci di fila), così per i libri, così per le persone...così per i videogiochi. The legend of Zelda è un esempio, sia chiaro, ma tra tutti penso sia l'esempio migliore. A distanza di tredici anni molti ancora si incantano davanti a ciò che offre, e molti ancora questionano sui significati nascosti di trama, simboli e gameplay. Questo a significare di come qualcosa che nasce per il solo intrattenimento, possa maturare e offrire riflessione in ogni suo aspetto. 
Dunque è vero: per parlare e smontare il pregiudizio bisogna conoscere i fatti che conducono ad esso, bisogna attingere a piene mani nelle situazioni da cui origina per capirne poi al meglio gli aspetti. Ma poi bisogna tornarne indietro, coscienti del peggio, per apprezzarne il meglio. 



lunedì 6 giugno 2011

Previously...on Breaking Bad!

Chi se l'è perso corra ai ripari. Si ma adesso. Ora, in questo istante. Non solo perché è fatto bene, non solo perché è recitato in modo sublime (non prendete in considerazione i doppiaggi grazie), non solo perché ha più risvolti di un cassetto di calzini, ma anche e sopratutto perché il 14 di Giugno inizia la quarta stagione!

Quando ho visto la locandina della serie e ne ho letto la trama, non avevo ben capito di fronte a cosa mi trovassi. Poliziesco? Hanno le pistole... Spacciatori? Dai, cucinano anfetamine. E' una di quelle serie che se non la vedi non ci credi. Non dico nulla della trama se non il fulcro sul quale si basa: la reazione a catena degli eventi. Prendi una decisione qui ed ora e se hai la fortuna di avere un punto di vista isolato e distaccato (come quello di un telespettatore, ma guarda un po'!) ti renderai conto di come gli eventi si concatenino fino all'assurdo. E il bello è che la vita è davvero questa. E il background di questo concetto è la società e cultura americana. Quella che si scandalizza tanto da essere scandalosa ma che, davanti ad eventi importanti e di poco più imprevedibili della quotidianità, perde la testa e rinnega se stessa. Insomma un intrigo continuo dove la scienza la fa da padrona scellerata. 


sabato 4 giugno 2011

Essere...e come essere

Non siamo il lavoro che facciamo, o il titolo di studio che possediamo. Sono loro a dover essere come noi siamo, mai il contrario. Dimentichiamoci allora la storia d'essere quel che ci dicono d'essere durante le 24 ore, i limiti imposti dai voti, dai cartellini e dai timbri. Penso che l'unico nostro limite possa essere quello del nostro stesso pensiero. Sempre e solo il limite che abbiamo, mai quello che ci attribuiscono.

domenica 22 maggio 2011

Alternative n.3



Vita aliena...vediamo si, vita aliena: e.t., alien, grigi e roba varia. Quando pensiamo allo spazio una delle prime cose che ci viene in mente è senza ombra di dubbio (giustamente aggiungerei) la vita extraterrestre e la fatidica domanda: siamo soli nell'universo? In realtà a questa domanda una risposta l'abbiamo già data ed è "no, non siamo soli", ma ciò a cui ci riferiamo sono batteri e poco più. Se invece parliamo di vita intelligente (almeno quanto noi, quindi molto poco) la questione si complica, e come tutte le cose complicate genera molta fatasia. Ed ecco allora venire alla ribalta ometti grigi e col capoccione, esseri sbavanti e cattivi e così via. Quello che però dovremmo probabilmente chiederci è se nel momento esistesse davvero questa forma di vita intelligente (e mi sembra indubbio che vi sia visto che nell'universo ci sono 100 miliardi di galassie ed ogni galassia ha miliardi di pianeti...),"come" sarebbe intelligente? Eh si, perché noi siamo intelligenti in un modo (per lo meno alcuni di noi), abbiamo un funzionamento specifico che poi noi riteniamo naturale e scontato, ma non è detto che anche qualsiasi altra forma aliena funzioni nello stesso nostro modo. E proprio questo sarebbe probabilmente il primo problema che dovremmo affrontare in uno scambio con tali esseri X. Prima di tutto bisognerebbe capire se possiedono una coscienza e che tipo di coscienza: noi abbiamo una coscienza (nel senso di autoconsapevolezza dell'essere) individuale e inscindibile, loro ne hanno una? Sono coscienti di essere? Ponendo di si, a meno che non si tratti di grossi batterioni, ci sarebbe da stabilire di che tipo di coscienza si tratta:individuale anch'essa o collettiva? Ma al di là della coscienza, argomento al momento complesso e scottante anche per noi esseri umani, sarebbe cruciale capire a grandi linee il funzionamento del loro sistema cognitivo. Eh beh anche perché prima di chiedergli come è andato il viaggio sarebbe opportuno capire se possiedono la capacità di astrazione per formulare il concetto del viaggio stesso e se lo intendono allo stesso nostro modo, e se possiedono anche un linguaggio in grado di formulare parole direttamente riferibili a cose o ad astrazioni, proprio come il nostro. Vorrei vedere come faremmo se i nostri “ospiti” comunicassero unicamente attraverso versi riferibili a stati d'animo specie-specifici, quindi imponderabili per noi... Ultima, ma non meno importante, sarebbe la struttura del pensiero. Il nostro pensiero si fonda sui processi logici (non la logica formale però!) e da ciò ne derivano tutti i conseguenti ragionamenti e le azioni. Ma se i processi di pensiero dei nostri visitatori non si basassero sulle medesime strutture, faremmo una fatica enorme a seguirne e comprendere i ragionamenti (sempre ammesso di superare lo scoglio linguistico), ci apparirebbero come talmente intelligenti da risultare criptici, oppure estremamente stupidi. Tutto questo naturalmente senza contare quei processi cognitivi “secondari” per importanza in uno scambio culturale extramondo come, che so, la percezione e la memoria.


Penso che il secondo desiderio di ogni scienziato, subito di seguito a quello di comprendere in toto la natura (e il funzionamento) umana, sia proprio quello di conoscere (anche solo di sfuggita) un'altra forma di vita intelligente oltre noi, una forma di vita a noi fratella con la quale condividere la sensazione e le riflessioni che nascono dall'essere vivi, ma ho il sospetto che potrebbe essere ben più difficile di quanto ci aspettiamo stringere la mano ad un nostro “dissimile”. Insomma, al di là di Hollywood, potrebbe essere molto complesso visitare strani, nuovi mondo...

venerdì 20 maggio 2011

Questione di sonorità

Da poco è uscito questo


e leggendo il nome di un gruppo sconosciuto mi sono incuriosito. Poi ho visto le facce, mi sono documentato e  ho capito. Insomma, ho capito che era successo quello che mi aspettavo che succedesse già da diversi anni. Beh peccato si, ma chi se ne importa, in fondo. La magia era già finita tanto tempo fa. Però ascoltando bene ho trovato qualcosa che negli ultimi album non ho trovato: la sonorità dei bei vecchi tempi. Intendiamoci, non ho trovato la brillante ed energica intensità con la quale mi sollazzavo in ogni brano, ma solo una scialba versione della sonorità che li ha resi grandiosi. Quasi un piccolo richiamo al passato, quasi uno sforzo a voler essere (da parte dei Beady eye) quello che sono stati negli anni '90 (gli Oasis), senza riuscirci naturalmente. La cosa triste è che invece di continuare un percorso, mi sembra quasi che siano tornati sui loro passi...Però anche un album del genere serve a qualcosa, infatti penso che a breve tirerò di nuovo fuori il mio vecchio cd di Be here now (et similia), masterizzato eoni fa dal mio amico di sempre, con il masterizzatore che il padre aveva a lavoro (eh si perché era raro avere un masterizzatore a casa in quegli anni).
Ma a proposito di sonorità, mi sembra incredibile trovare qualcosa di nuovo e allo stesso tempo di sintesi di tante cose come questo


     

un mix geniale di jazz, blues, rock, Tom Waits e pure Paolo Conte. E io che mi aspettavo un album anonimo o "tecnico" al di là della sua "Follia d'amore", e invece mi sono ritrovato con un piccola perla. Sembra quasi uno smacco ai Beady eye, sembra quasi voler insinuare che la storia musicale non va presa di sana pianta, ma rimaneggiata. Basta con la malinconia.
Insomma è una questione di sonorità, tra il vecchio, l'antico, il nuovo e il nuovissimo...

domenica 8 maggio 2011

Vittorie mesencefaliche

Diciamolo francamente: ha vinto lui. Dopo una battaglia lunga milioni di anni ed una situazione addirittura quasi scontata, ha ribaltato il risultato, e sembra quasi sul punto di vincere la partita! Diciamo che dopo un processo evolutivo lungo parecchi anni, durante il quale il nostro amico cervello ha sviluppato  quella specie di protuberanza che è il lobo frontale e la corteccia cerebrale, tutto per l'obbiettivo di avere un essere senziente, riflessivo e imprevedibile...noi che facciamo? Noi sputiamo su tutto questo lavoraccio e facciamo un bel passo indietro. Eh già. Ho sempre più il sospetto che sia in atto una moria di "cervelli evoluti", un'estinzione di massa di tutti quegli individui che affrontano le situazioni, le condizioni sociali e addirittura i propri istinti con il loro fiammante obo frontale, a favore di quelli che lo fanno con quel vecchietto del mesencefalo. Voglio dire: abbiamo sudato camicie su camicie per avere un sistema che permettesse ragionamenti basati su logica, capacità di inibizione e regolazione emotiva, e noi ce ne andiamo a spasso con il mesencefalo. Scherzi a parte, non me ne vogliano amici puristi di soluzioni oggettive estreme, fondate su presupposti inconsci e indimostrabili, che tentano con giustificazioni d'ogni sorta di salvare l'immagine dell'uomo medio. Non me ne vogliano, ma non ci credo più. Non credo più che vi sia una motivazione per ogni azione, al massimo posso pensare che vi sia un'azione per ogni motivazione, che vi sia cioè la capacità di appiccicare una qual specie di motivazione ad ogni azione svolta sulla base di spinte istintuali o similia. E se ci pensiamo bene è tutto lì: anche le basi sociali odierne fondano le basi su questi principi, muovendo mode, politiche e stili di vita sempre attraverso l'uso accurato degli istinti e delle necessità più basilari. Ed è lì che entra in azione la capacità di appiccicare una falsa motivazione ad'una azione. Allora l'accoppiamento viene giustificato con infatuazione o l'amore, gusti e capricci come bisogni e addirittura funzionamenti di pensiero basilari e arcaici come pregiudizi e paure vengono spacciate per ideologie politiche. Siamo in quel momento in cui rifiutiamo il complesso, il completo ed accettiamo il facile, lo scontato; un momento in cui non vale più il ragionamento, l'elaborazione (anche emotiva), ma valgono i bisogni di base. Perde il cervello evoluto, perde il lobo frontale. Vince il cervello rettiliano.

lunedì 25 aprile 2011

Pearl jam - Immortality



Vacate is the word
Vengeance has no place on me or her
Cannot find the comfort in this world
Artificial tear
Vessel stabbed, next up, volunteers?
Vulnerable
Wisdom can't adhere
A truant finds home
And a wish to hold on
But there's a trapdoor in the Sun

Immortality...


As privileged as a whore

Victims in demand for public show
Swept out through the cracks beneath the door
Holier than Thou, How?
Surrendered, executed anyhow
Scrawl dissolved
Cigar box on the floor
A truant finds home
And a wish to hold onto
He saw the trapdoor in the Sun

Immortality..


I Cannot stop the thought

I'm Running in the dark
Coming up a which way sign
All good truants must decide
Oh, Stripped and sold, mom
Auctioned forearm
And Whiskers in the sink
Truants move on
Cannot stay long
Some die just to live

mercoledì 20 aprile 2011

Defying gravity

Se ne avete l'opportunità (e l'avete perché avete internet) dovreste vedervi la serie televisiva "Defying gravity". Si tratta di una decina di episodi (13 per l'esattezza) ambientata in un futuro non solo plausibilmente futurabile, ma anche abbastanza vicino, il 2052. La serie è partita male per finire malissimo: alla messa in onda del suo pilot è stata definità da uno degli autori (stesso produttore magari?) il Gray's anatomy dello spazio. E' stata  cancellata perché nessuno se la filava. Si sono dati da soli una zappa sui piedi non grande, enorme: erano puttanate il fatto che la serie trattasse gli stessi temi nello stesso modo, cosicché chi, sentendo una notizia del genere, affascinato dalle soap opera si è avvicinato alla serie, l'ha abbandonata immediatamente mentre, a chi non frega nulla di cose del genere, non l'ha neppure presa in considerazione. Ora, non so molto bene se in realtà Gray's anatomy racchiuda al di là delle vicissitudini sentimentali un nocciolo filosofico e sociale ma, cazzo, Defying gravity è una delle serie più filosofiche che abbia mai avuto il piacere di seguire. Ogni puntata al di là dell'avanzamento della trama, si basa sempre su un concetto astratto, rendendolo il più possibile vicino al quotidiano, e si fonda sull'analisi di un aspetto della natura umana. La storia è abbastanza semplice: un gruppo di astronauti deve fare un tour del sistema solare per dei motivi che non voglio anticipare. Una puntata in particolare mi è rimasta in testa: il concept era basato sulla natura colletiva dell'essere umano, sul fatto che volenti o, sopratutto, nolenti abbiamo e sempre avremo bisogno dell'altro. E questo a causa della nostra stessa natura umana. Sembra banale il concetto, ma non so fino a che punto possa esserlo. Sentendo qualcosa del genere può essere semplice pensare "si ok abbiamo bisogno dell'altro per i bisogni, per le necessità ecc ecc" ma da qui dista molto il passo successivo, ovvero quello di accettare il concetto di una nostra intrinseca dipendenza. Siamo dipendenti quando nasciamo, siamo dipendenti quando invecchiamo, siamo dipendenti per gran parte della nostra vita, nella soddisfazione di bisogni essenziali, ma risulta difficile pensare di esserlo, in modo ancor più importante per la nostra vita intellettiva. Rilancio: siamo dipendenti anche nella salute intellettiva e in quella emotiva. Siamo dipendenti anche solo per la vista di un altro come noi, anche solo per il suo saluto. Questo è il nucleo del discorso , rendersi conto di non essere soli neppure di fronte ai propri pensieri perché anche quelli avranno sempre come base l'altro. Capirlo, farlo proprio, è questo il nucleo del discorso. E, nella puntata, te lo spiegano benissimo. 
La serie non ha neppure un finale. Enjoy