Resina di un certo livello...

venerdì 17 febbraio 2012

Cavalcando l'onda di Sanremo

Non ho mai immaginato che avrei scritto qualcosa su Sanremo (festival di)...e infatti non lo faccio. Potrei scrivere di farfalle tatuate, di battute a doppio senso, di parolacce, di ospiti e così via, ma lo lascio fare a qualcun altro, qualcuno che sia più avvezzo, più capace e sopratutto qualcuno a cui vada. Tuttavia scrivendo un post con la parola "Sanremo" nel titolo di certo cavalco l'onda, lo so, ma poco importa. Per quanto mi riguarda il festival si è chiuso stanotte, non tanto perché l'unico gruppo partecipante di mio interesse sia stato eliminato (Marlene Kuntz) e non tanto perché i partecipanti rimanenti non mi suscitano un granché (forse l'eccezione è Carone-Dalla), quanto più perché l'unico motivo di vero interesse è scomparso. Ok, i miei gusti mi portano a considerare la canzone dei Marlene una piccola perla, e l'esibizione con Smith un'enorme perla, ma non è questo quello di cui sto parlando. Quando il gruppo ha deciso di partecipare e l'ha comunicato, molti fan si sono sentiti traditi, perché il loro gruppo rock e di nicchia, ha deciso di partecipare ad un festival improntato sulla musica popolare. 2+2=4 si son detti: hanno deciso di darsi in pasto al commercio. Il gruppo ha allegato alla questione delle spiegazioni (ovviamente) magistralmente scritte e del tutto esaurienti ma quello che si legge in rete, le reazioni più comuni delle persone sono negative, sopratutto all'indirizzo della canzone stessa. C'ho riflettuto un bel po' in questi giorni e quello che proprio non posso fare a meno di pensare è il "cambiamento". Molti accusano i propri beniamini musicali di cambiare, spesso di ammorbidirsi con il passare degli anni; molti non accettano che tra il primo e l'ultimo album (cronologicamente parlando) vi sia una troppo marcata differenza. Insomma resta sempre difficile da parte del fan accettare le differenze tra le opere di un autore. E, assodato questo quindi, quello a cui ancora non posso fare a meno di pensare è proprio il "cambiamento". Si perché nel caso di gruppi con carriera decennale la mia stessa persona cambia. Sono io per primo a cambiare, a maturare; quindi perché non dovrei accettare che gli autori stessi della musica che amo ascoltare possano cambiare, avere necessità ed ispirazioni diverse? Perché devo guardare malamente la differenza tra un primo, giovanile, album ed un'ultima, più matura, opera? I gusti son gusti, ed un fan dei primissimi Marlene Kuntz forse potrebbe anche non amare "Canzone per un figlio" (in questo caso), siamo d'accordo, ma dovrebbe forse accettare che la mutevolezza dell'uomo comporti anche questo. Sempre in questo caso specifico si accusa la canzone di essere troppo melodica, a fronte invece di un sound più piccante. Ma forse si confonde l'idea che si ha del gruppo con quello che effettivamente è: il rock in generale, e i Marlene Kuntz nel particolare, fanno della melodia un punto di forza (in certi canoni). Una canzone melodica non è sinonimo di canzone commerciale, semplicemente perché...diavolo...la melodia è alla base della musica stessa. Questo principio vale sempre, indipendentemente dal palco sul quale la si suona. 



Credo che delle volte ci dimentichiamo che dietro alle cose che più amiamo, ci sono sempre uomini come noi, e che anch'essi cercano qualcosa, come noi.

lunedì 13 febbraio 2012

Black & White, come il fumo che sputo via

A volte mi prende un po' di nostalgia, ma non saprei dire per cosa. Forse è nostalgia per il nulla, perché se mi guardo indietro non trovo molto per cui vorrei tornare sui miei passi, solo piccole cose. Sto meglio ora, ho quello che mi serve. Però la sensazione c'è. Forse allora è solo quello che sembra, una sensazione a se stante alla quale badare davvero poco. Ma poi mi rendo conto che va "esplicata" va vissuta come ogni emozione, ogni sensazione, e metto su qualcosa di Tom Waits. 



Lui sembra capirmi. Sembra capire, implicitamente, che nulla va lasciato implicito e allora ti tira fuori le canzoni più giuste per certi periodi, per certi momenti (belli, brutti, tristi, rilassati...). Insomma quando ti sembra che la situazione sarebbe migliore se fosse in bianco e nero,  dove ci vorrebbe del fumo tra le labbra a cacciar via il freddo allora ci sta bene Tom Waits. Oppure quando hai bisogno di qualcosa di strano, qualcosa che ti allontani dalla tua realtà trascinandoti però vicino la parte ruvida della vita allora, anche in quel caso, Tom Waits va benissimo. Che sia a colori, la vita, lo decidiamo noi. Almeno mentre si ascolta questa musica.

mercoledì 8 febbraio 2012

Questione d'equilibri: il caffè mi sveglia, il whisky mi addormenta

La vita è un equilibrio, sottile, molto sottile. Un sottile filo che intercorre in tutte le cose, nella sobrietà d'un bicchiere di vino, nel senso di pienezza in un pranzo, nella ricchezza e nella povertà, nell'amore , nell'amicizia, nella tristezza e nella felicità. Nella vita ci si sbatte tra un estremo e l'altro senza a volte capire che tra l'uno e l'altro passa giusto il soffio d'un attimo, il nulla d'una piccolezza. E in questo nostro sbatterci c'è di mezzo il nostro mondo fatto d'abitudini, il nostro ingranaggio che gira ad un'unica velocità che si chiama abitudine. Ma diciamolo pure: non è che sia poi così male, e non potrebbe essere altrimenti. Quando l'abitudine si inquadra nelle nostre aspettative allora diventa un dolce scivolare, al quale non osiamo opporre resistenza. E in questo equilibrio, in questa piccola galassia dai confini marcati di giorno e di notte, stabiliamo il nostro ritmo. Si, in questo equilibrio stabiliamo anche i bottoni di "On" e di "Off", pulsanti che troviamo in ogni categoria: sesso, pranzo, ambizione, divertimento. Se non distribuissimo, come una semina, i nostri pulsanti, ci chiameremmo tra di noi "pazzi". E alla mattina il mio pulsante "On" mi chiama, su di una tazzina già pronta per il caffè ma dal fondo già colorato, e la sera sempre lì torno, per il pulsante "Off" che trovo su un'altra tazzina, dal profumo di Whisky. 
Nel mezzo del giorno, ho solo la scelta tra le due che mi divide...

martedì 7 febbraio 2012

Battlestar Galactica - Poco Star ma molto Battle

Consigli per gli acquisti. C'è chi mi definisce pusher di serie tv (e ne sono lusingato) chi magari pensa che rompo le palle (e ne sono compiaciuto) e per entrambi i motivi vi rifilo un altro consiglio seriale, questa volta di stampo pienamente fantascientifico. 
So che la fantascienza deve necessariamente essere nelle proprie corde per piacere, e so che non a molti piace, e proprio per questo scelgo di consigliare Battlestar Galactica. Se volessi consigliare qualcosa di puramente fantascientifico (ovvero caratterizzato da scienza ipotetica e con una base di questioni morali e filosofiche) consiglierei Star Trek, ma visto che voglio andarci sul sottile e con qualcosa di più "accattivante" scelgo quest'altra serie, più recente. 



In Battlestar Galactica si racconta fondamentalmente delle razza umana, ma dall'infuori dato che non si tratta effettivamente di esseri umani ma di qualcosa di molto simile e questo è il colpo di genio più grande di tutta la serie tv: si perché l'unico modo per raccontare qualcosa in tutti i suoi aspetti è quello di farlo con un punto di vista distaccato. Con questa premessa la serie tv riesce a raccontare delle paure più vibranti dell'umanità (non solo la propria estinzione ma anche e soprattutto la propria estinzione da parte del proprio creato, del proprio figlio), dei propri vizi, delle debolezze e della necessità (sopratutto nei momenti difficili) di cercare e creare appigli. Guardando Battlestar Galactica ci si dimentica di guardare un racconto di fantascienza per la tanto incredibile, quanto drammatica vicinanza, che gli eventi e i personaggi hanno con noi e la nostra società e cultura. Ci si scopre a seguire un riflesso distorto di noi stessi, il quale pur essendo distorto, e quindi diverso e irriconoscibile, risulta pur sempre un nostro riflesso. Ci si dimentica dello "Star" e ci si impregna nello "Battle", si perché la serie tutta fa un riferimento continuo alle nostre caratteristiche più basilari, quali la violenza. 
Se volessimo prendere una metaforica nave spaziale e percorrere un  viaggio nello spazio della fantascienza, potremmo dire che siamo partiti puliti, profumati e pieni di utopica saggezza e transumanesima filosofia con "Star Trek" per poi tornare sporchi, rotti, affamati, sterminati e braccati, e alla ricerca dei più basilari bisogni con Battlestar Galactica. Siamo partiti da superuomini, per tornare da omuncoli. E questa non è altro che una similitudine con i giorni nostri: eravamo carichi, negli anni passati, di aspettative e sogni, e ci ritroviamo oggi annichiliti dalle nostre stesse mancanze. 
Abbiamo paura persino nei nostri sogni più belli...

giovedì 2 febbraio 2012

Ricordi in avanti

Qualche giorno fa ho letto un interessante post su l ricordo...sulla possibilità che si viva due volte un attimo ben preciso, e che lo si percepisca due volte sempre lo stesso. Questo mi ha fatto venire in mente l'amnesia anterograda. Mi ha sempre affascinato l'idea di una persona intrappolata in un preciso istante, in un momento storico della sua vita. Una patologia su tutte è stata resa "famosa" da O. Sacks, ovvero la Korsakoff: una malattia causata da una precisa mancanza vitaminica associata ad abuso d'alcol che si traduce nella compromissione dei corpi mammillari e delle regioni adiacenti. Insomma, questa malattia produce un'amnesia anterograda, l'incapacità di trattenere a lungo termine una qualsiasi informazione dal momento dell'insorgenza, rendendo dunque il paziente "intrappolato" in un momento della sua vita. Negli anni ho scoperto poi che la memoria ha molteplici forme ed è così possibile un apprendimento del tutto automatizzato, o addirittura emotivo. Eppure quello che mi colpisce di questa condizione, superato il primo sentimento di angoscia, è la sua incredibile somiglianza con la realtà di tutti noi. A pensarci bene la nostra concezione del tempo (su di una scala più ampia che non siano i secondi) si basa fondamentalmente sui ricordi: siamo così intrinsecamente legati ai ricordi che distinguiamo il passaggio del tempo attingendo a loro e non facendo riferimento ad un "senso del tempo" specifico. In più la nostra percezione della vita che passa si basa appunto sui periodi: ci riferiamo all'infanzia, alla gioventù, a "gli anni in cui lavoravo lì" o a "gli anni in cui vivevo qua". Non possiamo distinguere i momenti se non in periodi molto ampi. E allo stesso modo di un paziente amnesico anterogrado anche noi nel "qui ed ora", nel momento in cui viviamo, non possiamo che sentirci fermi, bloccati, in un periodo della nostra vita. La differenza è ovvia: noi ci muoviamo (inconsapevolmente) in avanti, loro no. 
Pensando a quelle persone che non possono più apprendere notizie, abilità ed esperienze di alcun tipo, mi viene da pensare che il nostro modo di andare avanti nella vita, sia del tutto legato al modo con il quale ci guardiamo indietro, che sia legato ai nostri ricordi.