Resina di un certo livello...

venerdì 7 dicembre 2012

Ritorno all'uomo moderno


"Ben tornato uomo moderno" sarebbe da dirsi nell'eventualità. Si perché l'uomo è stato,in passato, moderno;lo è stato nella giovinezza della nostra civiltà, quando si moriva per malattie ad oggi considerate banali, quando la quotidianità era praticamente contaminata dalle superstizioni e dalle ingenue credenze. Si, quel pulcioso uno era moderno. Lo era perché nel frastuono delle difficoltà dell'epoca ha creato modi nuovi di vivere, un modo nuovo d'esaminare la realtà chiamato scienza, liberandosi di preconcetti così forti ma che, oggi, ci appaiono ridicoli. Si, oggi noi ridiamo di quelle prigionie mentali e culturali, ma la cosa divertente è che non ci rendiamo conto di averne anche noi, di simili addirittura. Anche noi abbiamo forti preconcetti e incanalamenti sociali che ci costringono a limitati punti ti vista. La differenza tra i nostri limiti e quelli dell'uomo passato è legata alla materialità:i nostri preconcetti e credenze hanno quasi tutti un'impronta materiale, mentre invece in precedenza era proprio l'opposto... L'uomo moderno è stato colui il quale, nella grande difficoltà quotidiana, ha prodotto un punto di vista in completa rottura con la sua epoca e grazie a questo, nonché alla capacità di mescolare il vecchio col nuovo,  ha prodotto il salto nel buio necessario per un grande cambiamento. Saltando oltre i pregiudizi mentali sulla divinità si è prodotto il metodo scientifico, saltando oltre la difficoltà interpretativa del caos si sono comprese le dinamiche dell' evoluzione delle specie. L'uomo moderno è colui che si svincola dalle dinamiche della propria epoca per andare alla ricerca di nuove. Ma dov'è oggi l'uomo in grado di svincolarsi da un mondo che, forse più di prima, ci tiene avvinghiati a sé, al suo ritmo e alle sue dinamiche? Dove possiamo trovare, oggi, la forza per diventare moderni?

giovedì 25 ottobre 2012

Golgi non ha voluto guardare


Per chi non lo sapesse in tutti i manuali di fisiologia spicca il nome di Golgi, come colui che inventò il metodo capace di farci osservare per la prima volta i neuroni. Quello che non tutti sanno (me compreso fino a tre giorni fa) è che una volta scoperto per caso (anzi per sbaglio, la sostanza gli cadde accidentalmente) non volle guardare. Si, non volle vedere perché sosteneva che i neuroni erano l'uno attaccato all'altro (mentre invece sono gli uni separati dagli altri, e comunicano attraverso processi elettrochimici). Cajal, giovane ed entusiasta cercò di coinvolgerlo, ma lui nulla. La domanda ora non è  "Golgi era davvero così stronzo e ottuso?" ma piuttosto "era davvero necessario che fosse così per giungere dove poi effettivamente è giunto?". E la risposta,ahimè, è purtroppo si. Era necessario perché la scienza è un metodo il quale si discosta in tutto o quasi dal funzionamento prettamente umano, è un rigore che si contrappone alla (fallibile) flessibilità dell' uomo. Il suo essere ottuso probabilmente derivava dalla sua ostinata ricerca di qualcosa, di un obbiettivo o meglio ancora dalla voglia di confermare un'ipotesi, in questo caso quella della rete continua dei neuroni,talmente forte in questo caso da non farlo retrocedere neppure davanti all'evidenza. Ma la domanda da porsi subito dopo è "è sufficiente un Golgi e il suo modo d'essere?" e la riposta in questo caso è no. No, perché mentre un Golgi prepara con fatica un metodo è necessario che vicino vi sia un Cajal, entusiasta, giovane (di idee) e che sia in grado di rompere i rigidi legami che noi stessi ci creiamo e che ci sono fondamentali per il raggiungimento della prossimità del traguardo. Si, perché il rigido metodo ci porta molto vicino al traguardo, ma poi ci vuole un salto, una rottura, per poter guardare qualcosa che spesso si discosta dalla nostra realtà, qualcosa di non intuitivo. Potremmo quasi dire che nella scienza è necessario che vi sia per ogni "normale", per ogni "rigido" un "folle". 
Anzi, per ogni cieco un vedente.


martedì 9 ottobre 2012

...all my troubles seemed so far away.

È il senso del ricordo quello che alla fine ci trascina in avanti. Non il ricordo stesso, ma la sensazione che certe cose siano trascorse via, andate, svanendo dolcemente. E allora la fumosa immagine diventa uno "ieri" che puoi accarezzare come fosse una parte di te, una parte della tua persona, anche se poi include amici andati via, o luoghi che forse non rivedrai mai. Ma ciò che mai dissiperà quella nebbia è l'eventuale ritorno, è il ricercare per rivivere, che snatura e ribadisce senza farci capire e lasciandoci attoniti davanti ad un "presente" che non può in nessun caso essere come un  "passato". E oscilliamo allora tra le più belle immagini delle memorie e la scoperta d'un continente sempre nuovo del quale andare alla ricerca. Un continente sempre diverso da quello già scoperto ieri. Per fortuna. 

giovedì 4 ottobre 2012

Siamo noi


Siamo noi, inutile non dirlo. 
Noi siamo quelli che guardano, neanche fossero guardoni , neanche gli piacesse per davvero. 
Noi siamo quelli che pure a trent'anni vengono chiamati ragazzi, da uomini che a trent'anni erano chiamati uomini con famiglia al seguito.. 
Noi siamo quelli che studiano perché senza lo studio resti ignorante, ma che lo studio al giorno d'oggi non è quello più quello di una volta, che comunque era poco e nulla. 
Noi siamo quelli che pur non mangiando, non potendo lavorare, non divertendosi e non possedendo assolutamente nulla si devono sentir dire che non vogliono fare sacrifici. 
Siamo noi quelli che se davvero vuoi lavorare il lavoro c'è, non viene retribuito ma c'è e vedi di non lamentarti.. Perché se poi ti lamenti... Lo vedi che non vuoi fare sacrifici!? 
Noi siamo quelli che si possono dimenticare il miglioramento sociale perché tutta la società alta è già stata presa, Arrivederci e grazie. I brizzolati salutano.
Siamo noi quei poveri sfigati che in realtà non esistono e che probabilmente non esisteranno, se non con qualche genere di rivoluzione culturale. 
Noi siamo questi, che fanno del tempo che passa la loro costante di vita, pur avendo i numeri. 
Pur avendo la voglia.

lunedì 24 settembre 2012

The hardest part - Quando la mia realtà non è la tua

Se c'è un tavolo, se i pavimenti sono bianchi, le mura sono bianche e addirittura i vestiti delle persone davanti a te sono bianchi, potresti accorgerti di colpo di come, di tutta la tua vita, quello è il momento più duro. Potresti accorgerti che gli appigli che hai sempre creduto di avere ora sono scomparsi, persino quelli più ovvi. Ora, nel tuo stato di più grande confusione potresti capire d'improvviso che anche solo il ragionamento poteva essere uno stato di beneficio, un privilegio rispetto ad altri, altri di cui ora fai parte.




"And the hardest part 
Was letting go, no taking part
Was the hardest part"


I momenti duri della vita, si affrontano nella tua integrità, secondo le tue possibilità e con il tuo intelletto. Ma quando la tua persona cade a pezzi? Quando l'individuo che sei cade a pezzi nella sua più intima essenza? Quando perdi le capacità di prestare attenzione, formulare frasi corrette, riconoscere degli oggetti, semplici oggetti, ricordare parole o brevi istruzioni? Quando tutto questo entra nella tua vita e si contrappone angosciosamente con l'attiva e reattiva persona che eri? 

"Everything I know is wrong
Everything I do, it's just comes undone
And everything is torn apart"

Probabilmente quando prendi coscienza di tutte queste tue mancanze, allora prendi coscienza di quello che vedo anche io, ovvero che la tua realtà non combacia più con la mia. Che si è allontanata dalla mia e da tutte le altre realtà al mondo. A quel punto, forse, la solitudine e la disperazione sono i sentimenti che più ti pervadono...


"I wonder what it's all about"

giovedì 6 settembre 2012

Io surfo da solo

E va bene. E' terminata l'estate, ho lasciato il sole lì dove m'ha fatto compagnia per parecchi giorni e son tornato, ritrovando clima e gente opposta. Va bene, la cosa va accettata. Ma come torno in città, come torno a lavorare e, diciamolo, a pensare, torno anche a scrivere prima che qualcuno mi rimbrotti, come già è successo. Internet non è la nostra vita e lo si capisce soprattutto quando te ne allontani, soprattutto quando gli sfuggi, gli scappi dalle mani; ma va ammesso che oramai internet è una nostra parte complementare. Molti lo usano per appagare il loro lato "sociale", per dare libera espressione alla loro necessità di formulare nuove conoscenze e di condividere ogni singolo istante di vita, ogni singolo respiro, con la propria cerchia di amicizie. Questo non fa per me. Non è che non trovi interessante sapere o far sapere di vacanze, uscite serali, pomeridiane o mattutine, oppure veder crescere a dismisura un tanto astratto quanto assurdo contatore di amicizie, è piuttosto che l'interesse che queste cose suscitano in me decade dopo appena un paio di secondi. Tutto qua. Posso trovare interessanti (come no, a discrezione) i tuoi pensieri e il tuo senso critico, ma non per questo ti reputerò "amico", e se vogliamo neppure "conoscente". Ecco diciamo che il sottoscritto fa parte dell'altra metà del popolo internauta, quello che viveva da dio alla fine degli anni '90 e i primi anni '00, quello che se internet fosse stato largamente diffuso negli anni '80, lo avrebbe usato all'incirca nella stessa maniera. Io vivo surfando da solo, andandomi a cercare le mie belle onde, per arricchirmene senza troppa pubblicità, senza troppo fracasso. Sono uno di quelli che surfano provando disagio vedendo sulla riva tutta la propria famiglia, i propri amici e conoscenti. Poi magari ve lo racconto in un pub, ma non statevene tutti lì in piedi a commentare, dai... E' questa la differenza che s'è creata negli ultimi anni e che digerisco poco: puoi pubblicare e diffondere foto e qualunque dettaglio della tua vita reale su internet sottraendole la giusta attenzione e concentrazione nel momento stesso in cui pensi di voler diffondere qualcosa, oppure puoi dedicarti esclusivamente alle cose reali, lasciando che la rete abbia un ruolo secondario. 
Va bene internauti...io vado a surfare.


martedì 19 giugno 2012

21th century schizoid man



Poche storie. Siamo scissi. Stiamo andando incontro ad una divisione mentale che prende forma non dalla nostra stessa psiche, ma dalla nostra stessa società. Siamo portati, ormai culturalmente, a dividere il mondo del lavoro dal mondo del privato, ma noi facciamo di peggio: noi ci spingiamo fino a dividere, in modo netto, i singoli istanti della giornata, i nostri stessi comportamenti, ottenendo atteggiamenti fluttuanti che poca concordanza hanno tra loro. Ci muoviamo quindi tra gli spazi come pazzi, come uno "schizoid man", che prima prende spunto dalla sponda della gentilezza, per poi sbattere sul versante opposto in metamorfosi grottesche e spietate giustificate dal più sguagliato ragionamento, che poco porta a ragione. Ma la cosa grave non si risolve solo nella poca classe che ci domina, nel continuo cambiamento frutto della più aspra indecisione, probabilmente la cosa più grave è la completa mancanza di coerenza che governa il nostro comportamento e la nostra personalità. Siamo bimbi tristi che cercano compagnia palpando schermi lisci e luminosi, senza uno scopo razionalizzato per cercare la felicità se non quello di dormire o far proprio l'ozio; siamo piccoli atleti mai divenuti campioni che fanno della metropolitana la propria palestra quotidiana. Ma sopratutto siamo uomini schizoidi che non sanno quel che vogliono per essere felici, ma che si muovono alternando comportamenti e atteggiamenti in ondate nevrotiche anzi, psicotiche.  

mercoledì 30 maggio 2012

I giorni miei


Questi giorni qui sembrano quasi malvagi. Sembrano quei giorni unici, unici nel tempo del mondo, in cui il significato delle cose diviene pungente, articolato in ogni sua sfaccettatura, in ogni sua complessità. Ci si rende conto di che giorni sono guardando la fila di macchine a formare colonne, mentre fuori il cielo e il caldo gridano compagnia. Ci si rende conto del mio tempo ascoltando i discorsi, i litigi e i silenzi seminati in giro. Mi rendo conto che questi miei giorni altro non sono che il riflesso di quel che ricorderò da vecchio, il nostalgico sospiro di chi ha finito la strada da percorrere, e si riempie di qualcosa che non gli è mai appartenuto. E così faccio ora: rincorro con amore il ricordo dei decenni passati, mitizzando anni maledetti da altri, proprio come ora faccio io con i miei.
Questi miei giorni si distinguono per la più completa indifferenza, e per l'incapacità di tutti di comprendere e di far proprio questo nostro tempo. Questi giorni miei sono un po' così. Difficili.

giovedì 10 maggio 2012

C'è chi fa pentole...e chi si dedica ai coperchi

C'è un proverbio che recita così: "Il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi". Un po' criptico, in effetti, e di significati da attribuirgli ce ne sarebbero. E' popolare, ok, e l'interpretazione più di tanto sofisticata non potrà essere, ma questo non mi ha fermato dal pensare a come le pentole e i coperchi siano complementari e a come la sinergia dei due oggetti porti ad un prodotto migliore rispetto ad un altro eventuale, derivato dal loro utilizzo separato (migliore per velocità di preparazione, cottura...). Ora, dire che il diavolo produce pentole potrebbe simboleggiare che le sue azioni sono incomplete, sono drasticamente imperfette e quindi con un perenne margine di miglioramento. Ma, a meno che non si parli di lezioni di educazione domestica nei piani bassi della terra, dubito che quel diavolo possa davvero essere lui 


il cattivo di turno
quindi sarebbe utile chiarire. Nella tradizione cristiana il diavolo rappresenta, tra le altre cose, la tentazione la quale se soddisfatta conduce al peccato, ma la tentazione per essere tale deve essere necessariamente legata  al soddisfacimento di bisogni sopratutto corporali. Tornando al nostro proverbio dunque il diavolo potrebbe simboleggiare quella parte più bassa che l'uomo possiede, una parte istintuale e devota alla soddisfazione grezza e immediata. Ma se ipotizziamo davvero che in fondo quel diavolo lì non sia il diavolo della religione possiamo anche estendere il concetto non solo ai bisogni immediati e diretti, ma anche più semplicemente a quelli basilari (vedi la fame...eh si, quindi la pentola). In questa visione delle cose, allora, la fame e il bisogno ti porta ad un'immediata soluzione, e quindi all'uso immediato della pentola del proverbio. Ma il diavolo fa SOLO le pentole... Dunque se abbiamo una pentola il cui utilizzo è impreciso e/o lento, e dunque costantemente migliorabile, chi la migliora? Chi fa i coperchi? Non essendo un trattato di filosofia ma solo un proverbio potremmo adottare la soluzione del contrario, e allora: il contrario del bisogno e della necessità più bassa, non può che essere il pensiero, il ragionamento. Mentre la parte più bassa e primitiva del nostro essere pensa a costruire una pentola per l'immediata soddisfazione, la parte più elevata ed evoluta di noi ritorna sui suoi passi per migliorarsi, per porre quel qualcosa in più che avvicina l'oggetto alla perfezione. 
Ma tra le pentole e il coperchio, mi sembra ovvio, c'è un legame indissolubile e sopratutto un processo intrinseco: non può nascere prima il coperchio della pentola, perché tutto possiede una propria evoluzione...

venerdì 20 aprile 2012

Stay in Touch

Il tempo passa e mi accorgo di essere assente nella mia parte più virtuale (mettiamoci il blog, si, ma anche altre forme di comunicazione come le reti sociali di internet...). E questo è in inevitabile, almeno per quanto mi riguarda. Le parole sono sempre fondamentali, perché in esse vengono espressi i concetti, e i concetti ci permettono di veicolare i simboli e le immagini della nostra mente; tuttavia, quando questi concetti e simboli richiedono concentrazione e tempo per maturare, le parole possono rappresentare una distrazione, un riempimento dannoso o inutile. Al giorno pronunciamo moltissime parole, ma quante di queste sono effettivamente utili? Quante di queste veicolano un'informazione necessaria o portano con loro un effettivo obiettivo? In questi tempi, i tempi della comunicazione, si sta perdendo la qualità della comunicazione stessa a scapito della sua quantità e, di conseguenza, si perde l'opportunità di sfruttare il silenzio per la metabolizzazione degli eventi, per la loro comprensione, o proprio per la maturazione di nuove parole e concetti. Il silenzio mi sembra una parte fisiologica e indispensabile della parola.
Ad ogni modo in "Touch" di Tim Kring (autore dell'anonima e sfortunata "Heroes") riprende un tema a lui caro ovvero l'evoluzione umana e quindi l'interconnessione tra le persone negli angoli più remoti della terra. In "Touch" i numeri rappresentano un piano della realtà che permettono di rendere comprensibili quelle che noi chiamiamo "coincidenze" facendocele vedere come "futuro", "destino" o qualcosa del genere... Al di là della trama e degli eventi presi di volta in volta in esame (sempre tutti interessanti finora) quello che rende questa serie tv unica è la visione d'insieme che offre, la capacità di collegare sia intellettivamente che emotivamente eventi apparentemente disgiunti tra loro, cercando di offrire semplicemente una spiegazione (anche se romanzata, per carità) del perché, a volte, le coincidenze ci uniscono anche a grande distanza. 
Ah, tutto questo cerca di farlo limitando le parole...
Stay in touch!



martedì 20 marzo 2012

Mi perdo

A volte mi perdo. Non posso farci nulla. A volte, in giornate assolate, ma senza troppo caldo nel cielo, inizio a camminare, un passo dopo l'altro. L'intenzione, in quelle giornate lì, non corrisponde alla meta ma alla medesima azione che compio: l'intenzione del camminare è il camminare stesso. E allora cammino per strade e vicoli, ascoltando la colonna sonora della mia vita di quel momento e guardando attentamente tutto ciò che incontro. Mi perdo volontariamente seguendo l'andamento della strada, segnando il mio percorso con piccoli obiettivi, come peschi in fiore, palazzi d'altri tempi o semplicemente qualcosa di sconosciuto. Mentre la vita che abbiamo costruito ci impone, dittatorialmente, di proseguire per punti, di muoverci da un luogo all'altro secondo un preciso schema, una precisa necessità e volontà, a volte sento il bisogno di lasciarmi andare tra le vie più sconosciute.
A volte mi perdo, e lo faccio un po' con tutto: mi perdo nel tempo, mentre progetto, decido, risolvo. Posso perdermi guardando aerei che se ne vanno lontano, o sentendo la mia voce alterata durate un litigio. Posso perdermi nella noia e nella finta allegria.
Mi perdo.
Ma tanto poi la strada la ritrovo sempre.

mercoledì 14 marzo 2012

Ritorno agli anni '80 - Una ricostruzione non storica

Sono nato proprio in quegli anni, quindi dire che l'ho vissuti è dire troppo. Nonostante questo dire che io non li abbia vissuti affatto è dire troppo poco... Si perché degli anni '80 mi sono rimaste molte cose, cose che a molti potrebbero non dire nulla perché caratteristiche della mia sola infanzia, ma che sono indelebilmente legate a quegli anni. 
Prima di tutto una cosa: negli anni '80 c'era il sole. Eh si, il sole in quegli anni lì c'era per davvero e non faceva finta. Ricordo che quando uscivo nel mio bellissimo giardino potevo sentirne la presenza, in alto, e l'effetto, in basso, negli angoli. Negli anni '80 c'era però anche la notte, e la notte a quel tempo era molto più semplice; ricordo che iniziava con il ritorno di mio padre dal lavoro, qualche programma alla tv (una grande tv a tubo catodico), le suppliche a mia madre per restare sveglio ancora un po' e poi un sonno senza pretese ma con qualche paura, ma che comunque filava liscio come non mai. Ora avviene il contrario: ogni sonno è ricco di pretese e senza troppe paure, eppure è sempre tormentato. 
Gli anni '80 avevano i programmi tv, che erano semplici programmi. Potevano piacere come non, eppure non erano programmi di azione sociale, non c'erano barzellettieri che si fingevano sovrani, non c'erano pupazzi che si fingevano re. Al massimo, qualche anno dopo si sarebbe potuto vedere "gommapiuma"...
Negli anni '80 non avevano ancora inventato gli sbalzi d'umore, non avevano ancora previsto le crisi economiche e il frigorifero si riempiva magicamente. In quegli anni poi le tute non erano "acetate" (almeno non le mie) e potevo mettere d'estate i pantaloni corti, cavolo quelli da ciclista elasticizzati, senza sembrare un emerito cretino. 
La popolazione in quegli anni era davvero felice e, pensate, l'America era appena dopo le montagne che si vedevano da casa mia... Il mio giardino aveva poi due cani, non uno ma addirittura due. 
Nella mia camera c'era l'MSX, che il NES costava troppo (ma che comunque avrei avuto da lì a poco).
Ma soprattutto, negli anni '80 si credeva davvero che i decenni a venire sarebbero stati persino più belli, cosa che invece non era vera...
Quando mi ricordo degli anni '80 ho il ricordo di qualcosa di bello, ma non so quanto fosse merito loro o quanto del mio modo di vedere le cose...

lunedì 12 marzo 2012

Radiohead - Codex




Slight of hand.
Jump off the end,
into a clear lake,
no one around.
Just dragonflies fantasized.
No one gets hurt.
Done nothing wrong.
Slide your hand.
Jump off the end.
The water’s clear
and innocent.
The water’s clear
and innocent.

giovedì 8 marzo 2012

Gene spirit

Bene, dopo il video di qualche post fa, ovvero "Polemica, con R. Dawkins", nel quale ci si può fare un'idea su ciò che pensa lo scienziato della religione, è magari bene parlare di ciò che pensa in relazione all'evoluzione. Vogliamo farla breve? Ok: per Dawkins l'evoluzione è la preservazione e la propagazione del dna. Senza se e senza ma. Mentre si è sempre ritenuto che il processo conservativo che ci ha condotti fino a questo punto fosse relativo alla conservazione dell'individuo e della sua comunità, con la sua teoria viene a formarsi una grande rottura in tal senso. Si perché secondo Mr Dawkins quello che conta davvero non è la persona ma il suo materiale genetico, ed ecco allora che ogni aspetto della nostra vita, ogni gesto quotidiano, sarebbe indirizzato unicamente alla propagazione del suo dna. Ora, sicuramente, appare come un punto di vista decisamente estremista e che può "soffocare" il punto di vista di una vita (quella umana) articolata tra le sensazioni e, soprattutto, tra le emozioni. La nostra civiltà utilizza queste (le sensazioni e le emozioni) in un modo un po' differente rispetto agli altri animali: l'uomo infatti tende a razionalizzarle (vuoi anche per la complicità delle strutture prefrontali) e, se ci pensiamo bene, a porre alla base della propria civiltà questa stessa opera di razionalizzazione. La nostra civiltà (le varie culture umane si differenziano tra le altre cose anche per il modo in cui compiono tale processo) pone alla sua base la capacità di frenare ed elaborare istinti, emozioni, sensazioni e così via. Questo stesso fatto potrebbe entrare in conflitto con l'idea che l'evoluzione riguardi il dna e non l'uomo di per sé, se non si considera il fatto che le stesse esperienze mentali che ci caratterizzano possono essere uno dei tanti mezzi che il processo evolutivo possiede per andare avanti. Sappiamo infatti il ruolo fondamentale che le strutture limbiche (quelle adibite all'aspetto emotivo) possiedono per la salvaguardia dell'individuo (ovviamente anche animale...) come anche all'integrazione nella propria comunità... E per quale motivo dunque le strutture frontali non dovrebbero avere il medesimo ruolo in tal senso? Perché non dovremmo guardare alla nostra specificità come uno dei tanti meccanismi sorti in natura per la proprio preservazione? Se guardassimo in tal senso forse allora si potrebbe accettare maggiormente anche l'idea che non siamo noi a preservarci, ma ciò che ci caratterizza alla base... Altruismo, egoismo, prosocialità, amore, odio, empatia, sarebbero tutti meccanismi atti alla preservazione e alla propagazione del proprio materiale genetico.
Fastidiosa come visione, vero?



venerdì 2 marzo 2012

Come potrebbe essere...

Mi chiedo spesso come sarà. Me lo domando e mi rammarico nel sapere che non avrò risposta; no, non ce l'avrò fino a quel momento. Mi rilasso perché so che prima o poi lo saprò, si quando lo vivrò. Però poi mi rammarico ancora, perché mi rendo conto che non ne avrò memoria, non avrò il tempo per averne un ricordo, uno di quelli leggermente offuscati, difficili da avere in testa. Poi senti di gente lontana a te che se ne va, e va bene perché, ti dici, "meglio un mito che un conoscente, un amico, un fratello...si meglio un mito" però allo stesso tempo ti rendi conto che quel mito, quell'antonomasia di se stesso, ha incontrato quel momento, c'è andato incontro, esattamente come si supponeva facesse. 
Non posso farci nulla, mi chiedo spesso come sarà e quando sento di queste situazioni un sorriso mi si stampa in faccia. Con semplicità.


venerdì 17 febbraio 2012

Cavalcando l'onda di Sanremo

Non ho mai immaginato che avrei scritto qualcosa su Sanremo (festival di)...e infatti non lo faccio. Potrei scrivere di farfalle tatuate, di battute a doppio senso, di parolacce, di ospiti e così via, ma lo lascio fare a qualcun altro, qualcuno che sia più avvezzo, più capace e sopratutto qualcuno a cui vada. Tuttavia scrivendo un post con la parola "Sanremo" nel titolo di certo cavalco l'onda, lo so, ma poco importa. Per quanto mi riguarda il festival si è chiuso stanotte, non tanto perché l'unico gruppo partecipante di mio interesse sia stato eliminato (Marlene Kuntz) e non tanto perché i partecipanti rimanenti non mi suscitano un granché (forse l'eccezione è Carone-Dalla), quanto più perché l'unico motivo di vero interesse è scomparso. Ok, i miei gusti mi portano a considerare la canzone dei Marlene una piccola perla, e l'esibizione con Smith un'enorme perla, ma non è questo quello di cui sto parlando. Quando il gruppo ha deciso di partecipare e l'ha comunicato, molti fan si sono sentiti traditi, perché il loro gruppo rock e di nicchia, ha deciso di partecipare ad un festival improntato sulla musica popolare. 2+2=4 si son detti: hanno deciso di darsi in pasto al commercio. Il gruppo ha allegato alla questione delle spiegazioni (ovviamente) magistralmente scritte e del tutto esaurienti ma quello che si legge in rete, le reazioni più comuni delle persone sono negative, sopratutto all'indirizzo della canzone stessa. C'ho riflettuto un bel po' in questi giorni e quello che proprio non posso fare a meno di pensare è il "cambiamento". Molti accusano i propri beniamini musicali di cambiare, spesso di ammorbidirsi con il passare degli anni; molti non accettano che tra il primo e l'ultimo album (cronologicamente parlando) vi sia una troppo marcata differenza. Insomma resta sempre difficile da parte del fan accettare le differenze tra le opere di un autore. E, assodato questo quindi, quello a cui ancora non posso fare a meno di pensare è proprio il "cambiamento". Si perché nel caso di gruppi con carriera decennale la mia stessa persona cambia. Sono io per primo a cambiare, a maturare; quindi perché non dovrei accettare che gli autori stessi della musica che amo ascoltare possano cambiare, avere necessità ed ispirazioni diverse? Perché devo guardare malamente la differenza tra un primo, giovanile, album ed un'ultima, più matura, opera? I gusti son gusti, ed un fan dei primissimi Marlene Kuntz forse potrebbe anche non amare "Canzone per un figlio" (in questo caso), siamo d'accordo, ma dovrebbe forse accettare che la mutevolezza dell'uomo comporti anche questo. Sempre in questo caso specifico si accusa la canzone di essere troppo melodica, a fronte invece di un sound più piccante. Ma forse si confonde l'idea che si ha del gruppo con quello che effettivamente è: il rock in generale, e i Marlene Kuntz nel particolare, fanno della melodia un punto di forza (in certi canoni). Una canzone melodica non è sinonimo di canzone commerciale, semplicemente perché...diavolo...la melodia è alla base della musica stessa. Questo principio vale sempre, indipendentemente dal palco sul quale la si suona. 



Credo che delle volte ci dimentichiamo che dietro alle cose che più amiamo, ci sono sempre uomini come noi, e che anch'essi cercano qualcosa, come noi.

lunedì 13 febbraio 2012

Black & White, come il fumo che sputo via

A volte mi prende un po' di nostalgia, ma non saprei dire per cosa. Forse è nostalgia per il nulla, perché se mi guardo indietro non trovo molto per cui vorrei tornare sui miei passi, solo piccole cose. Sto meglio ora, ho quello che mi serve. Però la sensazione c'è. Forse allora è solo quello che sembra, una sensazione a se stante alla quale badare davvero poco. Ma poi mi rendo conto che va "esplicata" va vissuta come ogni emozione, ogni sensazione, e metto su qualcosa di Tom Waits. 



Lui sembra capirmi. Sembra capire, implicitamente, che nulla va lasciato implicito e allora ti tira fuori le canzoni più giuste per certi periodi, per certi momenti (belli, brutti, tristi, rilassati...). Insomma quando ti sembra che la situazione sarebbe migliore se fosse in bianco e nero,  dove ci vorrebbe del fumo tra le labbra a cacciar via il freddo allora ci sta bene Tom Waits. Oppure quando hai bisogno di qualcosa di strano, qualcosa che ti allontani dalla tua realtà trascinandoti però vicino la parte ruvida della vita allora, anche in quel caso, Tom Waits va benissimo. Che sia a colori, la vita, lo decidiamo noi. Almeno mentre si ascolta questa musica.

mercoledì 8 febbraio 2012

Questione d'equilibri: il caffè mi sveglia, il whisky mi addormenta

La vita è un equilibrio, sottile, molto sottile. Un sottile filo che intercorre in tutte le cose, nella sobrietà d'un bicchiere di vino, nel senso di pienezza in un pranzo, nella ricchezza e nella povertà, nell'amore , nell'amicizia, nella tristezza e nella felicità. Nella vita ci si sbatte tra un estremo e l'altro senza a volte capire che tra l'uno e l'altro passa giusto il soffio d'un attimo, il nulla d'una piccolezza. E in questo nostro sbatterci c'è di mezzo il nostro mondo fatto d'abitudini, il nostro ingranaggio che gira ad un'unica velocità che si chiama abitudine. Ma diciamolo pure: non è che sia poi così male, e non potrebbe essere altrimenti. Quando l'abitudine si inquadra nelle nostre aspettative allora diventa un dolce scivolare, al quale non osiamo opporre resistenza. E in questo equilibrio, in questa piccola galassia dai confini marcati di giorno e di notte, stabiliamo il nostro ritmo. Si, in questo equilibrio stabiliamo anche i bottoni di "On" e di "Off", pulsanti che troviamo in ogni categoria: sesso, pranzo, ambizione, divertimento. Se non distribuissimo, come una semina, i nostri pulsanti, ci chiameremmo tra di noi "pazzi". E alla mattina il mio pulsante "On" mi chiama, su di una tazzina già pronta per il caffè ma dal fondo già colorato, e la sera sempre lì torno, per il pulsante "Off" che trovo su un'altra tazzina, dal profumo di Whisky. 
Nel mezzo del giorno, ho solo la scelta tra le due che mi divide...

martedì 7 febbraio 2012

Battlestar Galactica - Poco Star ma molto Battle

Consigli per gli acquisti. C'è chi mi definisce pusher di serie tv (e ne sono lusingato) chi magari pensa che rompo le palle (e ne sono compiaciuto) e per entrambi i motivi vi rifilo un altro consiglio seriale, questa volta di stampo pienamente fantascientifico. 
So che la fantascienza deve necessariamente essere nelle proprie corde per piacere, e so che non a molti piace, e proprio per questo scelgo di consigliare Battlestar Galactica. Se volessi consigliare qualcosa di puramente fantascientifico (ovvero caratterizzato da scienza ipotetica e con una base di questioni morali e filosofiche) consiglierei Star Trek, ma visto che voglio andarci sul sottile e con qualcosa di più "accattivante" scelgo quest'altra serie, più recente. 



In Battlestar Galactica si racconta fondamentalmente delle razza umana, ma dall'infuori dato che non si tratta effettivamente di esseri umani ma di qualcosa di molto simile e questo è il colpo di genio più grande di tutta la serie tv: si perché l'unico modo per raccontare qualcosa in tutti i suoi aspetti è quello di farlo con un punto di vista distaccato. Con questa premessa la serie tv riesce a raccontare delle paure più vibranti dell'umanità (non solo la propria estinzione ma anche e soprattutto la propria estinzione da parte del proprio creato, del proprio figlio), dei propri vizi, delle debolezze e della necessità (sopratutto nei momenti difficili) di cercare e creare appigli. Guardando Battlestar Galactica ci si dimentica di guardare un racconto di fantascienza per la tanto incredibile, quanto drammatica vicinanza, che gli eventi e i personaggi hanno con noi e la nostra società e cultura. Ci si scopre a seguire un riflesso distorto di noi stessi, il quale pur essendo distorto, e quindi diverso e irriconoscibile, risulta pur sempre un nostro riflesso. Ci si dimentica dello "Star" e ci si impregna nello "Battle", si perché la serie tutta fa un riferimento continuo alle nostre caratteristiche più basilari, quali la violenza. 
Se volessimo prendere una metaforica nave spaziale e percorrere un  viaggio nello spazio della fantascienza, potremmo dire che siamo partiti puliti, profumati e pieni di utopica saggezza e transumanesima filosofia con "Star Trek" per poi tornare sporchi, rotti, affamati, sterminati e braccati, e alla ricerca dei più basilari bisogni con Battlestar Galactica. Siamo partiti da superuomini, per tornare da omuncoli. E questa non è altro che una similitudine con i giorni nostri: eravamo carichi, negli anni passati, di aspettative e sogni, e ci ritroviamo oggi annichiliti dalle nostre stesse mancanze. 
Abbiamo paura persino nei nostri sogni più belli...

giovedì 2 febbraio 2012

Ricordi in avanti

Qualche giorno fa ho letto un interessante post su l ricordo...sulla possibilità che si viva due volte un attimo ben preciso, e che lo si percepisca due volte sempre lo stesso. Questo mi ha fatto venire in mente l'amnesia anterograda. Mi ha sempre affascinato l'idea di una persona intrappolata in un preciso istante, in un momento storico della sua vita. Una patologia su tutte è stata resa "famosa" da O. Sacks, ovvero la Korsakoff: una malattia causata da una precisa mancanza vitaminica associata ad abuso d'alcol che si traduce nella compromissione dei corpi mammillari e delle regioni adiacenti. Insomma, questa malattia produce un'amnesia anterograda, l'incapacità di trattenere a lungo termine una qualsiasi informazione dal momento dell'insorgenza, rendendo dunque il paziente "intrappolato" in un momento della sua vita. Negli anni ho scoperto poi che la memoria ha molteplici forme ed è così possibile un apprendimento del tutto automatizzato, o addirittura emotivo. Eppure quello che mi colpisce di questa condizione, superato il primo sentimento di angoscia, è la sua incredibile somiglianza con la realtà di tutti noi. A pensarci bene la nostra concezione del tempo (su di una scala più ampia che non siano i secondi) si basa fondamentalmente sui ricordi: siamo così intrinsecamente legati ai ricordi che distinguiamo il passaggio del tempo attingendo a loro e non facendo riferimento ad un "senso del tempo" specifico. In più la nostra percezione della vita che passa si basa appunto sui periodi: ci riferiamo all'infanzia, alla gioventù, a "gli anni in cui lavoravo lì" o a "gli anni in cui vivevo qua". Non possiamo distinguere i momenti se non in periodi molto ampi. E allo stesso modo di un paziente amnesico anterogrado anche noi nel "qui ed ora", nel momento in cui viviamo, non possiamo che sentirci fermi, bloccati, in un periodo della nostra vita. La differenza è ovvia: noi ci muoviamo (inconsapevolmente) in avanti, loro no. 
Pensando a quelle persone che non possono più apprendere notizie, abilità ed esperienze di alcun tipo, mi viene da pensare che il nostro modo di andare avanti nella vita, sia del tutto legato al modo con il quale ci guardiamo indietro, che sia legato ai nostri ricordi.

domenica 29 gennaio 2012

'50 in technicolor

Una volta un mio amico, con più del doppio dei miei anni, mi ha raccontato di quando ha ritrovato una foto, di quando era giovane, a colori... Non so se si trattasse di una delle rarissime e primissime foto a colori o se fosse stata colorata successivamente, fatto sta che quando la fece vedere al figlio (mio coetaneo) questo gli disse sorpreso "Ah ma allora anche voi eravate a colori...". Questa frase ha colpito molto il mio amico perché per lui, che è nato alla fine degli anni '40 e ha vissuto quell'epoca ormai troppo lontana da noi, appare ovvio che fossero a colori (e ci mancherebbe...), ma non aveva mai pensato a come uno della nostra generazione potesse guardare a quelle foto... Nonostante anche noi sappiamo benissimo che i colori ci sono sempre stati, ci sembra sempre difficile immaginare quelle foto sbiadite in tonalità di grigio come un'immagine sbagliata della realtà, un'immagine alterata. Anche a me succede di guardare le foto dei miei genitori o dei miei nonni e di non riuscire ad immaginare quell'Italia così lontana a colori, in technicolor; quasi come se la tecnologia abbia "plasmato" la nostra immaginazione. 


Ma da un certo punto di vista mi rassicura questa storia: perché so che, nonostante tutto, il mondo è sempre stato un po' simile a come è ora e che anche domani, forse, non cambierà più di tanto. Almeno per i colori... 

giovedì 26 gennaio 2012

Osmosi di idee

Una volta ho sentito una frase decisamente accattivante in Fringe: le idee si muovono per osmosi. L'osmosi è un processo presente in biologia, per il quale le molecole tendono a muoversi (attraverso membrane semipermeabili) dove è presente una loro minore concentrazione. Quindi le idee migrerebbero in luoghi dove non sono presenti, attecchirebbero e prolifererebbero nelle teste dove non sono. 
Pensiamo sempre che le idee, così come la nostra stessa mente, siano cose del tutto eteree, cose quindi prive di regole e di funzionamenti come quelli che regolano il mondo fisico; addirittura alcune persone sono anche pronte a negare che la mente abbia un proprio funzionamento, figuriamoci altro. Non voglio dire che le idee siano soggette necessariamente a leggi proprio come gli oggetti, come le cose del nostro mondo, ma piuttosto che se proprio le idee si debbano muovere secondo un moto simile all'osmosi, credo che questo debba funzionare più che altro al contrario. Penso che un'idea emigri, si moltiplichi, in una mente che di idee già ne ha, che già ha avviato un qualche tipo di ragionamento, di processo di pensiero. Non è detto che debba essere per forza di cose lo stesso ragionamento o lo stesso tipo di idea, ma credo che per ricevere un'idea, bisogna averne un'altra di fondo. Solo con un pensiero proprio si può accettare quella di un altro. 

lunedì 23 gennaio 2012

Lenta lettura

Un tempo quando prendevo in mano un libro, come lo iniziavo lo finivo. Non d'un fiato, senza pause; ma procedevo in modo costante, con una lettura uniforme. Il libro era mio compagno, sul treno all'andata e al ritorno, prima di dormire, nelle pause. Ora invece il libro ha un altro ordine, un altro andamento: si interpone nella mia vita modificandola, o modificando il mio modo di viverla. Spesso si dice che il libro è come un amico, perché ti accompagna e ti tiene compagnia, ma vorrei vedervi con un amico sempre accanto, nella borsa, ovunque andiate, o sempre lì prima di addormentarvi. In questo momento della mia vita, il libro è un vero amico: mi aspetta placido, senza rotture di palle o scenate di gelosia, perché sa che ci sono e che tornerò. Il libro che mi aspetta, nella mia libreria in questo istante, è un libro che ogni volta che torna a far capolino nella mia mente mi regala momenti di interessante riflessione, momenti che non puoi divorare come divoreresti storielle banali, perdendone semplicemente il significato e la profondità: un libro che va assorbito poco per volta, che va fatto crescere dentro di sé, proprio come vanno fatte crescere le esperienze di vita condivise con un amico. 
Sarà un momento o sarà per sempre, non lo so, ma ho cambiato marcia alla lettura, passando da una veloce e leggera, che ti fa attraversare milioni di ambienti e paesaggi portandoti dritto alla meta, ad una marcia lenta e da crociera che ti dice dove ti trovi e ti permette di osservare bene al di là del vetro, mentre sempre e comunque alla meta ti porta.


sabato 21 gennaio 2012

Tv-zapping on the night

L'altra notte in uno dei miei tanti pellegrinaggi televisivi in attesa che il sonno sopraggiungesse mi sono imbattuto nel faccione di Lucarelli. Ovviamente la prima cosa che ho pensato è stata: omicidi. La seconda è stata Fabio De Luigi, ma lasciamo stare. Invece no, si trattava di un altro tipo di programma: parlava di Billy Barattolo, ovvero William Campbell, ovvero della storia di come Paul McCartney fosse morto e sostituto da un sosia. Conoscevo di striscio questa storia (anzi, questa teoria), sopratutto per i tanti messaggi contenuti nelle copertine degli album (dai piedi nudi, alla scritta "I was" sotto al cantante e bassista e così via...).  La teoria sostiene che il cantante non fosse morto in un incidente, bensì strozzandosi con un salatino. A favore della teoria sarebbe la merdosità dei salatini dei pub inglesi, con tanto di testimonianza di Antonio Caprarica. La storia dell'incidente (facilmente confutabile) sarebbe stata inventata invece da John Lennon...

Antonio Caprarica , soprannominato da alcuni "Criceto". 
Non so proprio il perché.


Devo dire che la parte migliore del programma, il quale andava avanti con il medesimo alone di mistero e la medesima presentazione dei fatti, prove e dubbi di "blu notte", fosse indiscutibilmente quella relativa alla musica.  Quando parlava degli album e di piccoli retroscena (accertati) relativi all'uscita dei medesimi il mio sonno si allontanava sempre più... Il risultato di un'oretta di storielle su sosia di cantanti e improbabili soffocamenti è stato solo uno...farmi riprendere Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e farmi capire sempre più quanto i Beatles abbiano dato alla musica...ma farmi anche (solo purtroppo) immaginare quanto dovesse essere avveniristico ascoltare canzoni del genere in anni, a noi, così lontani. Forse vivendo negli anni '60 e ascoltando un album del genere mi sarei immaginato una musica omogeneamente evoluta nel 2000...e invece...

Avrei anche potuto mettere...che so...Lucy in the Sky with Diamonds
ma questa fa capire che mescolanza di suoni e che 
inarrivabilità di stile avessero...1967

venerdì 20 gennaio 2012

Si stava meglio quando si stava peggio

Sono giorni di agitazione in rete. Tra acronimi, chiusure, censure e attacchi a siti governativi, abbiamo sempre più la sensazione che anche internet stia conoscendo per la prima volta il sapore che nasce  manifestazioni e cortei prima, attacchi e guerre su larga scala poi. Non ho voglia di scrivere un articolo su SOPA o PIPA, o su quanto successo nella notte tra megaupload e Anonymous, un po' perché le mie opinioni non si discostano poi molto da tante altre trovabili in rete, un po' perché sarebbe inutile (forse) e un po' banale (certamente). Voglio invece scrivere più generalmente su internet. La mia età mi permette di fare un raffronto tra il prima e il dopo, tra quando non c'era internet a quando è stato introdotto e infine a quando è maturato. Faccio parte di quella generazione che ha vissuto il cambiamento in prima fila, non troppo giovane per non capirci nulla, non troppo grande per avere difficoltà nell'apprendere una nuova tecnologia. La novità più grande che Internet ha apportato alla mia vita è stata l'informazione: con informazione non intendo la possibilità si essere aggiornati in tempo reale sulla politica o sulla cronaca, o avere sempre sott'occhio il meteo, intendo avere (più o meno) sempre la possibilità di avere una risposta ad una domanda. Prima di avere la rete a disposizione il mio computer era vuoto, era un mezzo per la videoscrittura (al massimo) o per i videogames, nulla di più; era una schermata blu con cursori bianchi che attirava interesse come ogni altro oggetto dalle potenzialità finite. Ma quando arrivò la 56k arrivarono le informazioni (caricate con lentezza eh...), arrivarono i primi siti con sfondi improponibili e che quasi ti servivano su di un piatto la congiuntivite... arrivavano i fansite, e le primissime ricerche sui "motori di ricerca" (ancora nessun monopolio per eccellenza). Poi più in là è arrivata la possibilità di scaricare filmati, film, giochi, libri, e di connettersi con gli altri. Ed è qui, al momento della maturità, sua e mia, che ho capito la caratteristica irrinunciabile della rete: la connettività. Non intendo solo la possibilità di farsi gli affari altrui su FB et similia, ma intendo la capacità di creare reti di connessione tra persone, gruppi di persone e informazioni. La capacità di internet è quella di abbattere il limite dello spazio (distanze) e del tempo (l'immediatezza di un dialogo) eppure a mio avviso fa di più: ti permette di aggregarti con altri all'insegna di un argomento, un motivo e un obbiettivo. Ti permette di ottenere cose che fisicamente sarebbe difficile ottenere, disancorandole dalla fisicità stessa. Internet è un mondo di informazione pura, senza alcuna forma di fisicità. 



Ecco, con gli ultimi risvolti si intuisce cosa si potrebbe perdere. La diatriba che più facilmente si apre è quella relativa alla legalità del download di materiale coperto da copyright e sulla moralità che ne dovrebbe conseguire. Tuttavia reputo che la rete sfugga ai limiti concreti ai quali il nostro mondo è soggetto, a tutti quei limiti di concretezza sui quali abbiamo fondato le regole civili. La legge la fa il più forte e il più forte dice che una proprietà è gestita da terzi; i terzi vogliono sostenere che se ottieni una copia di tale proprietà, questi ti possano perseguire legalmente. Vogliamo insomma imbrigliare un mondo puramente informativo nelle regole di un mondo puramente concreto, vecchio, snaturandone l'essenza che da sempre lo caratterizza. Forse il giorno in cui ci saranno dogane per entrare in domini differenti dal .it, e dove la connettività e la sua astrattezza verranno meno sarà il giorno in cui spegnerò definitivamente il mio router e anche io cadrò nella nostalgica frase: "si stava meglio quando si stava peggio".

domenica 15 gennaio 2012

Superfici lisce

Questa notte in metropolitana un polpastrello ha sfiorato un tubo di sostegno. Ne ho sentito la superficie ed era liscia... Ho pensato a come fosse gradevole la superficie liscia delle cose...ho pensato a come potesse essere un meraviglioso complimento da fare ad una persona. Perché se dici a qualcuno che è "la superficie liscia delle cose" è come dire che è la sensazione inaspettata di semplicità, una sensazione di perfetta mancanza di resistenza...


martedì 10 gennaio 2012

Noi siamo il seguito

Ho sempre pensato che quando getti un'idea possano esserci in molti sotto a raccoglierla, un po' come pesci con le molliche di pane. Ma a volte le idee, o meglio le tendenze, possono avere effetti addirittura inaspettati; possono a volte diventare un ramo culturale, tanto importante da intaccare il modo stesso di vivere della gente. Un caso di questo tipo, chiaro ma che comunque definirei innocuo, è quello di Babbo Natale. L'idea in sé non è recente, per carità, e ha origine con santi e storie di vario genere (in base ai paesi), tuttavia la sua icona, la sua immagine, ha una storia che può sorprendere. Il panciuto e peloso signore è stato "inventato" da quei simpatici signori della Coca-Cola. Eh si. L'idea di un signore vestito di rosso deriva dall'intuizione dei pubblicitari dell'azienda degli anni '30, i quali lo raffigurarono di rosso per ovvi motivi, ispirandosi ad un occasionale camionista incontrato lungo un viaggio. Non posso che pensarci ogni volta che arriva il Natale...

Se vi state chiedendo il perché di quelle guance rosse...allora 
interrogatevi sugli ingredienti della Coca-Cola.


Ma va bene, si potrebbe rispondere, a chi importa dove è nata la figura odierna del Babbo...ma quando si tratta invece di cambiare radicalmente opinione sul valore degli oggetti? La frase, tanto amata da tutti gli uomini del mondo, "Un diamante è per sempre" ha già qualche annetto...Per qualche annetto intendo un bel po' di anni, ovvero da quando il diamante ha preso il valore (decisamente importante) che si ritiene che abbia. La tarda scoperta del diamante, al principio, ha fatto ritenere che questo fosse un materiale effettivamente raro (oltre che utile viste le sue proprietà) e così la sua commercializzazione in quanto gioiello ha portato ad un prezzo elevato. Tuttavia la successiva scoperta di ulteriori (e abbondanti) miniere di diamanti ne ha determinato un crollo del valore. La soluzione è presto detta; la famiglia Rothschild, la quale detiene la gestione delle miniere in Sud Africa ha sfruttato un mezzo nuovo (per l'epoca) e rivoluzionario: la pubblicità. Bombardi le persone con una frase, la quale rappresenti un valore, elimini l'informazione vera dalla circolazione (ovvero il valore effettivo dell'oggetto) e il gioco è fatto. L'immagine pubblicitaria infatti ha una particolarità, ovvero quella di colpire l'immaginario della gente. Nell'arco di una generazione i giochi era fatti, i diamanti avevano preso un valore sproporzionato, tanto da giustificare l'espressione "...per sempre". Ho provato a dire a molti questa storia dei diamanti, eppure in pochi m'hanno creduto, nonostante l'avessi letta da fonti giornalistiche certe. Questo probabilmente perché si viene da un retaggio culturale che ancora oggi esercita la sua azione sul nostro immaginario e sui nostri gusti. 
Quando lanci un'idea, nel bene o nel male, quell'idea ha bisogno di un seguito per crescere, per ingrandirsi e magari per migliorarsi. Nel bene o nel male quel seguito siamo noi...